LR Bianco 2011 93
Sauvignon Lafòa 2013 92
Cabernet Sauvignon Lafòa 2011 91-92
Chardonnay Formigar 2012 90
Cornelius 2011 89
Pinot Nero St. Daniel Riserva 2011 88
Pinot Bianco Weisshaus 2013 88
Ammetto di essere un ammiratore smodato dei vini altoatesini, ma anche un testimone di quali progressi siano stati qui compiuti nei 40 anni in cui ho avuto la ventura e la fortuna di poterli seguire con buona continuità. Territorio questo in cui molte cose si combinano e non a caso la vite vi ha plurimillenari trascorsi e ne disegna il territorio.
In Italia però abbiamo infinite zone vocate e quelle dove si producono sul serio vini grandi sono poi assai poche. C’è dunque in Alto Adige parecchio più dell’indispensabile vocazione, perché quello che ha smosso tutto in questi decenni (e con quale eleganza, profondità, ricchezza) è stato l’aprirsi e il rinnovarsi di una cultura ed un’intraprendenza al vino, con una focalizzazione delle tematiche, dei problemi e un’attenzione ad ogni singolo dettaglio nelle soluzioni, che non esiste con questa vastità e assieme capillarità in nessuna altra zona d’Italia.
Occorre comunque dire che l’Alto Adige era già avanti nei decenni scorsi e molte opere dei suoi vari kellermeister avevano una valenza e qualità davvero importante. Però qui si è avuto l’intelligenza di capire quanto di nuovo, propositivo e giusto andava offrendo la modernità del vino e la sua scienza, cosa di nuovo si muoveva nel gusto europeo ed internazionale al suo livello più colto e come le vigne dell’Alto Adige, tanto ricche e variegate di vitigni, potevano presentare un poderoso e originale pacchetto d’offerta, con infinite sfumature, dietro appunto questa infinità di sollecitazioni.
Un’ultima nota infine su come qui le cooperative funzionino davvero e diano vini di esemplare bellezza. Può darsi che la storia in qualche misura di enclave del territorio, abbia portato i suoi abitanti a compattarsi maggiormente, ad essere più concordi e uniti. Non voglio però addentrarmi in analisi sociologiche, che non mi competono. Rimango così al puro aspetto enologico. E mi domando se per ottenere grandi risultati è meglio avere un solo, singolo ettaro di vigna o, assieme ad altri, averne invece, dico, cento e più, tutti selezionati dai secoli e dall’uomo, con le loro diverse altitudini, composizioni di terreno, esposizioni e gamma di vitigni? Potendo così tentare, valutare il meglio in ogni singolo sito, delimitarlo, ridefinirlo, approfondirlo vendemmia dopo vendemmia?
Certo bisogna appunto essere solidali, concordi, avere una direzione tecnica e scientifica poi di altissimo profilo. Ma questo accade in tutto l’Alto Adige e con, inoltre, un’estrema attenzione alla salvaguardia del territorio.
Molte di queste cantine cooperative così rappresentano oggi un’imperativa avanguardia, proponendo una gamma di etichette, diverse per vitigno, vigna, tempi di raccolta delle uve (con dunque vini bianchi vinificati in vasca inox da tutti i vitigni più nobili, etichette di bianchi maturati invece nel legno, poi rossi giovani assieme a rossi molto più profondi e complessi sia da uve autoctone, che da quelle bordolesi e di Borgogna, oltre che meravigliosi vini dolci passiti) non raffrontabili con nessuna altra parte del mondo per la quantità del loro numero e per la qualità dominante che hanno espresso e continuano ad esprimere in ogni diversa vendemmia che la natura ci ha dato in questi ultimi vent’anni.
Come sempre sono gli uomini a fare dunque la differenza. E non si può trascurare il fatto che proprio qui, rispetto a tutte le altre regioni del nostro paese, nelle case, nei ristoranti e negli alberghi dell’Alto Adige, si consumi il più elevato numero di bottiglie di alta qualità, sia italiane che internazionali. Certo il turismo è una voce di questo consumo, ma il turismo esiste in tutta Italia. Ed io penso che il bello ed il buono di questo territorio sia anche nel desiderio di confronto vero, nella voglia di capire, di andare avanti e migliorarsi che hanno i tanti suoi produttori, coltivatori, enologi, appassionati, misurando le proprie vigne e vitigni accanto alle più importanti etichette italiane e del mondo.
Ma veniamo agli assaggi che più mi hanno convinto in questi ultimi mesi. E dunque alla Produttori Colterenzio, che è una cooperativa storica nata nel 1960 con 28 soci fondatori, che sono oggi quasi 300, e appunto un patrimonio in vigne di circa 300 ettari, poste su altitudini che variano dai 250 metri ai 550 e si inoltrano da Cornaiano verso i migliori siti dell’Oltradige e della Bassa Atesina. Questo a dare una idea delle dimensioni e del potenziale della sua realtà.
Si può dire che, avendola diretta per diversi decenni, Luis Raifer sia stato qui l’anima profonda dell’azienda. Ed oggi, pur continuando ad operare, ha da pochi anni passato il testimone al figlio Wolfgang.
Partendo allora da questi ultimi assaggi, quello che mi ha impressionato è la leggera ritaratura che ho trovato in ogni singola etichetta e sempre verso un’espressione di maggiore consistenza assieme ad più vasta felicità espressiva.
Inizio così dallo storico Pinot Bianco Weisshaus, il primo vino che all’inizio degli anni ’90 ho conosciuto ed apprezzato di Colterenzio, a dividersi allora le mie preferenze con lo Schulthauser di San Michele Appiano.
Il Weisshaus era un tripudio sprintato di profumi varietali del miglior Pinot Bianco altoatesino (con un nitore che lasciava capire quanta bravura tecnica ci fosse nel raggiungere profumi così tersi e splendenti). Complessivamente un gran bianco immediato, sapido, dalla godibilità travolgente, con una immacolata purezza di frutto ed una mineralità dolomitica che mi facevano venire in mente quei suoi paesaggi, le vacanze estive trascorse lì, la luce nelle giornate di agosto, il verde puntellato di fiori, il grigio netto della roccia, il bianco delle cime e sopra il colore del cielo. Perché niente come il vino può restituire l’immagine, l’aria, il carattere e il respiro del territorio.
Il Weisshaus esprimeva questa felicità di fiori e frutta estiva, questo incantesimo della bella stagione, che ha però una sua fragilità, che è destinata a finire con l’arrivo del cattivo tempo e del freddo. Vino così che mi godevo al suo meglio nell’anno successivo alla vendemmia, spesso nel tripudio dell’estate, prima che la sua freschezza iniziasse a cedere.
Ma il 2013 segna un cambio di passo. Questo Pinot Bianco ha mantenuto tutta la sua grazia incantevole, ma al tempo stesso ha un leggero spessore in più, è appena più dilatato e complesso, pur rimanendo acuto, verde, minerale, con una straordinaria sapidità in bocca in un finale dolce che bilancia la sua bellissima acidità. E’ diventato insomma un bianco più importante, più pieno e più longevo, senza perdere nulla della sua giovanile soavità.
Lo Chardonnay Formigar ’12 è poi un altro esempio di come il tassello espressivo dell’azienda si stia man mano collocando nel suo punto più felice. Ricordavamo questo vino nelle lontane vendemmie come molto carico di legno. Era anche il segno di un’epoca, di una moda e di un gusto che coinvolgeva un po’ tutti. Però questo peso eccessivo del legno tendeva spesso a schiacciare, a soffocare il frutto (che nelle vendemmie felici poi riemergeva a volte, ma dopo molti anni, quando il vino ormai era stato tutto consumato, e davvero in pochi potevano verificarlo).
Ci sono stati così assestamenti diversi nel tempo, anche con un calo drastico e comunque una diversa modulazione dei mesi di fermentazione nei legni e della loro dimensione. Una presa di misure poi anche in vigna, di selezione dei grappoli e di mirata scelta dei tempi di raccolta, proprio perché il gusto tende naturalmente ad evolversi e si vuole un risultato sempre più buono e convincente, in cui la sensazione di frutto sia densa, certo pura, nitida, varietale, ma anche deliziosamente complessa ed in evoluzione.
Questo Formigar 2012 tende così proprio alla soluzione di un dosaggio del legno delicato, presente, ma non invasivo. Il suo naso è bellissimo, rotondo, appetitoso e al tempo stesso di finezza e complessità superiore, vivacizzato ed espresso da toni di vaniglia, cera d’api, fiori di acacia, burro fuso in un baluginio che cresce prezioso nel bicchiere, continuamente felice, dolce, elegantissimo. Ma è appunto la sensazione della polpa ad emergere e a dominare in tutta la sua fresca, appetitosa fragranza e gustosità, offrendo una dimensione nuova di quello che può essere un grande Chardonnay italiano e di montagna, che fermenta e matura nel legno, prendendo da questo passaggio solo il necessario per dilatarsi e crescere stabilmente nel tempo.
Con il Lafòa 2013 entriamo poi nell’ambito del Sauvignon Blanc supremo. Vitigno questo, occorre dire, che ha evidenziato nel nostro paese un progresso ed un espressività prodigiosa in questi anni, crescendo al punto da sopravanzare, per i suoi risultati, lo storicamente più blasonato Chardonnay. E comunque questo Lafòa è stato, sin dall’iniziale assaggio di quasi 20 anni fa (a colpirmi anche la sua etichetta di klimtiana memoria), nel mio privato top del miglior Sauvignon, rappresentazione di un’avanguardia del gusto, dell’intentato e dunque del vino bianco che arriva ad una dimensione assoluta.
Siamo su un vigneto posto intorno ai 430 metri di altitudine, con un terreno sabbioso e ghiaioso di origine morenica, piantato nel 1989 a Guyot con una fittezza di 5.000 ceppi ad ettaro. E sono diversi gli elementi qui a combinarsi per un vino di tale eccezionalità, la felicità dei cloni, che partivano comunque da una selezione e da una esperienza di molte decadi, la mineralità particolarissima del suolo, la continua escursione termica del sito che esalta nella maturazione degli acini la formazione di quei precursori aromatici che renderanno unico il Lafòa.
Ma anche il cammino in cantina indica quanto questo vino sia stato pensato, tentato, sperimentato per assemblarne il puzzle fino ad una tale armonia. Una metà fermenta infatti in vasca inox e l’altra in barrique, dove svolge anche la malolattica. E dopo circa 8 mesi i due tagli vengono assiemati.
La vendemmia 2013, sicuramente più fresca, è poi l’ennesima dimostrazione di quanto le uve bianche ed aromatiche guadagnino da un andamento stagionale meno caldo e siccitoso, facendo nascere vini più lunghi, profumati, nervosi e anche longevi.
Il suo assaggio è stato così davvero felice, appassionato e, nonostante questo Lafòa sia oggi solo al suo primo sbocciare, come uno scrigno in parte sigillato, quel suo colore bellissimo dai riflessi verdolini era una continua sequenza di profumi alti, sontuosi, netti e deliziosamente sapidi, in cui il varietale del vitigno era freschissimo, di una sonorità quasi piccante, vivida, spigolosa, e assieme succulento (perché il vino è nello stesso tempo denso, energico), palpitante di frutto in una trama coloratissima, vivace, ma con una sua anima profonda, assieme grassa e puntuta, in pieno movimento.
La sensazione che si aveva era proprio di un’energia che andava aprendosi e da un vegetale di foglia di pomodoro andava verso la salvia, la frutta estiva e quella esotica, su un fondale di frutto della passione e in una gamma aromatica che cresceva sempre più, ricchissima, da acquolina in bocca. Dove poi il vino confermava la sua magnifica acutezza, la mineralità articolata, cosparsa di sapide dolcezze, in un buono di sapori che non finivano mai. Insomma un bianco totale, in un’annata esemplare, di cui saper fare saggia scorta.
Ma a riprova di questa continua ricerca è appena uscito un nuovo vino, che ha toccato il livello più alto tra i miei assaggi di questi ultimi mesi ed è un grandissimo bianco che rappresenta la summa di quanto indagato e compreso in questi decenni, raccogliendo in sé le più significative uve dell’Alto Adige in una simbiosi in cui la bellezza, la profondità, la piacevolezza, la gustosità fitta e complessa del bere trovano un’armonia altissima.
Parliamo di LR 2011 (dedicato appunto al lavoro e alla presenza di Luis Raifer in questa azienda), che nasce, da vigne poste tra i 400 e i 550 metri di altitudine, in un blend di 65% Chardonnay, 15% Sauvignon, 15% Pinot Bianco, maturati per 2 anni nei legni, e 5% infine di Gewurztraminer solo in vasca inox. Vino che ci ha fatto una profonda impressione, molto particolare nel packaging, ma ci interessa ovviamente il contenuto, la realtà di questo bianco. E nessun altro ci ha più convinto di lui.
Ma, attenzione, non parliamo di un vino ostentato, calcato, che vuole stupire con effetti speciali. Quello che mi ha più colpito è il suo senso mirabile della misura, dell’equilibrio armonico, quella superiore leggerezza calviniana che, a mio avviso, un bianco deve avere, dove ogni peso, ogni zavorra, così come ogni ruga e piega è cancellata da questa bionda bellezza radiosa, da qualcosa di felicemente universale che lo attraversa, pur essendo in fondo una pura quintessenza del bianco altoatesino, con una sua naturale, felice riconoscibilità.
Allora diciamo subito che il colore è bellissimo ed il naso si propone con una estrema ricchezza di suggestioni, ma appunto anche con una elegantissima misura e freschezza. Il tono ed il carattere dello Chardonnay tendono sicuramente a prevalere (i suoi fiori di acacia, la cera d’api), però al tempo stesso, questo LR 2011 possiede una vivacità e mineralità di sottofondo che rende tutto meravigliosamente giovane e pieno di divenire. I due anni di legno poi non si avvertono affatto, per quanto il vino è fresco, terso e lucido.
La bocca poi è di una superba tattilità setosa, che si va aprendo man mano in deliziose preziosità, ancora trattenute dalla grande giovinezza. Ripeto, è un vino che colpisce appunto perché non ostenta pacchianamente la sua bellezza, ma la lascia scoprire a poco a poco, facendo intravedere le sue gioie, le tropicalità intime e profonde del frutto, la voluminosità vibrante e tesa del suo corpo di nordica fanciulla bellissima, la luminosità che emana aromi in una soavità aerea. Vino che ha appunto esordito con la 2011, ma che ha già in cantina la 2012, 2013, 2014 …
Però ci sono qui anche vini rossi importanti. Ed il Lafòa Cabernet Sauvignon ne è un po’ l’archetipo, da un vigneto impiantato nel 1987, tra le primissime etichette a dimostrare come l’Alto Adige avesse in sé anche le capacità per rossi non soltanto di grandi altezze di profumi, ma anche di densità, di ricchezze fitte, cremose, in grado inoltre di crescere molto e a lungo negli anni.
Ho il ricordo di alcune prime grandi vendemmie con il ’93, ’95, ’97, ’99. Ma, venendo alle ultime annate, trovo anche qui un progresso verso la modernità tra la 2011 attualmente in commercio e la 2010, che certo ha dato un gran rosso vasto, ricco, con un solido bagaglio aromatico, ma che mi è anche sembrato già maturo ed appena un po’ statico.
Il Lafòa Cabernet 2011 invece appare decisamente più dinamico, vitale, espansivo, con una bella profondità e grassa dolcezza, pieno poi di frutto succoso che quasi deborda, tanto è ricco, appetitoso e con quel carattere distintivo dei rossi altoatesini, quel respiro largo di frutti lamponati così pieno di grazia e poi un lungo fondo concentrato di cassis, spezie ed erbe dolci, felici, avvolto il tutto in una cremosa fascia inchiostrata. Parliamo di un gran rosso che mantiene il suo aplomb aristocratico, l’andatura forte, solenne, ma assieme a questo si avverte la sua varietà, la bocca piena di frutto gustoso e prestante, con tannini levigati ed una tale carica di freschezza ed energia dentro di sé da lasciar pensare a quanto tempo ha ancora davanti questo Lafòa per crescere e stupire.
Assolutamente da provare poi il Cornelius 2011, uvaggio bordolese a larga prevalenza (80%) di Merlot, rosso appena meno complesso del Lafòa, ma di bellissima morfologia e modernità, assai profondo ed intenso nel colore. E già il naso annuncia e suggerisce potenti volumetrie rotonde, con sensazioni di frutti di bosco, cacao, cannella, leggero tocco ematico e dolce grafite infine. Vino assai giovane, in grado di crescere molto, ma già di intensa e vivida saporosità.
Ultima nota infine sul Pinot Nero Riserva St. Daniel 2011. Una versione gentile, fresca del vitigno, che dà un’interpretazione lieta, immediata, godibile di questo vino, così difficile da ottenere al di fuori della Borgogna, ma che in Alto Adige trova alcune aree a vocazione assai elevata.
I suoi filari, con 15 anni di età, sono tra Montagna e Ora, in un microclima fresco, a 350 metri di altitudine. Parliamo di un Pinot Nero dal prezzo assai contenuto, che non mira a particolari profondità e complessità, ma che esprime in notevole agilità, eleganza e freschezza il pieno varietale del vitigno e tutta la mineralità del suo terreno vulcanico. Un vino delizioso, di pieno piacere, sin dai profumi perfettamente equilibrati, succosi di piccoli frutti rossi ed una bocca dolce e femminea dalla bella saporosità acida e minerale.
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