Neostòs Rosso, ultima grazia

Neostòs Rosso, ultima grazia

Luciano Di Lello

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Neostòs Rosso 2011 – ?
Neostòs Rosso 2012 – 88
Neostòs Rosso 2013 – 95
Neostòs Rosso 2014 – 91
Neostos Rosso 2015 – 96
Neostòs Rosso 2016 – 95
Neostòs Rosso 2017 – 96
Neostòs Rosso 2018 – 93
Neostòs Rosso 2019 – 95-96
Neostòs Rosso 2020 – 90?

Credo che il mio percorso nel mondo del vino italiano, iniziato nei primissimi anni Settanta, sia stato costellato di esperienze superbe. Prime folgorazioni sul Sassicaia ’68, su un Brunello Biondi Santi Riserva ’64. Ricordo il Barolo Brunate di Cogno-Marcarini, poi il Pira, targati entrambi ’67 e ’70, il Barbaresco del Parroco di Neive Riserva Basarin ’71. E infine, non ultimo, perché esisteva anche allora il senso di un grande vino nazionalpopolare, pieno di impeto e di ancestralità, il meraviglioso Chianti La Querce Riserva 1970, con 2 grossi cartoni dei quali, acquistati in una domenica di pellegrinaggio sacrale presso questa fattoria dell’Impruneta, sopravvissi per almeno un quinquennio nel pieno degli anni di piombo.

Girando i territori della penisola, mi ha guidato soprattutto la curiosità per il nuovo e l’inatteso. Cercavo un vino che esprimesse un inedito in bontà e sapore, una luce originale ed intima, oltre lo scontato, il già visto e sentito. In questo senso ho avvertito la crescita del vino italiano in tutti i decenni successivi, con il suo testimone di bellezza che passava continuamente di territorio in territorio, di vigna in vigna. 

Era difficile essere un assaggiatore fedele. Un vino mi conquistava, ma nelle migliaia di assaggi di ogni nuova stagione ne scoprivo altri con colori e spazi mai visti, con un’espressività ulteriore, un guizzo non avvertito prima. 

Così fino all’inizio del nuovo millennio continuavano ad esplodere infinite etichette di punta, mentre altre già note magari si appannavano, lasciando intravedere come il genio del vino fosse pronto a sorprenderti, ma anche a fuggire altrove, se il vignaiolo si appagava, se non continuava, con lo stesso rigore e capacità, a voler toccare il limite e magari superarlo.

Per decenni dunque centinaia di etichette mi hanno stupito, prima di iniziare ad avvertire come via via qualcosa cominciasse però ad incrinarsi in queste ultime stagioni, come spesso in tanti vini importanti mancasse quella consueta felicità espressiva, quell’armonia di forme e volumi che prima era tesa in alto ed ora man mano si abbassava progressivamente, con vini (nei migliori dei casi) pronti prima e meno intensi, meno ricchi, meno fervidi, meno lucidi e emozionanti.

Mi sono reso sempre più conto di quanto il problema terribile e complicato fosse nella mutazione climatica che via via imperversava, dentro il caldo inesorabile delle ultime estati, dentro le siccità diffuse e implacabili lungo tutta la penisola e nella sofferenza così delle vigne, nello strazio e nell’inaridimento in taluni casi di piante sempre più fuori registro, che non riuscivano ormai a nutrire i frutti in modo omogeneo e continuo, offrendo di conseguenza uve sofferenti, in cui si bruciano gli aromi, le acidità, con acini squilibrati, poveri di bontà, di bellezza, come lo saranno poi inevitabilmente i vini.

Un dramma che rimette tutto in discussione, vigne, alture, varietà, siti, sistemi di impianto e di potatura, esistenza stessa di molti vigneti. E’ un tema nevralgico che andrà affrontato, approfondito, sviscerato direi, per le infinite implicazioni socioculturali, economiche e affettive che comporta. 

Ma ora mi fermo, perché la ragione di questo articolo è fortunatamente un’altra, di sicuro non tragica. E, visto che per motivi anagrafici è anche uno dei miei ultimissimi lavori, mi sono così posto il tema di raccontare il vino rosso che negli ultimi dieci anni più mi abbia convinto, spiazzato, soddisfatto, colpito. 

Non si tratta di un vino famoso, ne’ con quotazioni da capogiro, semplicemente perché sconosciuto ai piccoli guru del nostro ed altrui giornalismo, mai dunque entrato nei circuiti, per certi aspetti quasi un inedito.

Parlo del Neostòs Rosso, nato nella vendemmia 2011 e via via assestatosi su una produzione intorno alle 4.500 bottiglie l’anno. 

La sua composizione vede un 60% di Merlot da una vigna a 400 metri di altitudine sul versante del Pollino e il restante 40% da Greco Nero e Guarnaccia Nera coltivati a 250 metri di altitudine sul versante tirrenico del nord cosentino. 

Ho assaggiato questo rosso per la prima volta appunto 10 anni fa e anche con qualche diffidenza, dovuta al fatto che si dichiarava vino naturale. 

Confesso di aver sofferto negli anni scorsi di una certa idiosincrasia verso questi termini, che portavano più o meno sotterraneamente a lasciar intendere come tutti gli altri vini fossero di fatto innaturali. Ma oramai i quesiti cosmici non mi interessano più di tanto, visto che tra poco conoscerò tutto (oppure il nulla eterno forse, ma non me ne accorgerò e dunque …). 

Vengo al concreto così. Perché questo rosso mi ha colpito subito, anche se le prime due annate, la 2011 e la 2012, nelle loro imprecisioni indicavano la necessità di una migliore messa a punto. Di certo ne ero rimasto però incuriosito. Il Neostòs esprimeva una forte diversità (aromatica, strutturale, connotativa) da tutti gli altri vini. E avvertivo inoltre dentro di lui estremi opposti che in qualche modo si integravano e si arricchivano. C’era qualcosa di atavico, ma anche di nuovo, c’era del misterioso e nello stesso tempo il vino appariva aperto, ridondante.

Poi finalmente la versione 2013, assaggiata due anni dopo la sua vendemmia, inviatami appena messa in bottiglia, era riuscita a conquistarmi in modo definitivo. Questo grande rosso aveva preso finalmente forma, identità. Il disegno era inciso, di personalità forte e con una originalità di aromi e fattezze che mi apparivano bellissime e ancora una volta per certi aspetti inedite, ignote. 

Da lì per ogni annata fino all’arrivo della 2019 l’assaggio si è trasformato davvero in una festa e in una magia. Sentivo al primo approccio un vino di rara autenticità e diverso da ogni altro, popolare nei tratti, nei canoni, con qualche piccola imprecisione tecnica all’approccio, che si disperdeva però (come racconterò) quanto più il vino si ossigenava nel bicchiere. 

Assaggiandolo mi sembrava di recuperare qualcosa del nostro passato, che si era andato disperdendo nei meandri omogeneizzanti delle tante e sicuramente importanti migliorie tecniche della nostra enologia. Il Neostòs era un’interpretazione particolarissima del vino, concentrato, se vogliamo, con qualche tono rustico, ma mirabilmente denso e nello stesso tempo pieno di una potente, fresca originalità aromatica, che (come avrei via via scoperto nel tempo) si sarebbe evoluta meravigliosamente e con estrema, pacata lentezza negli anni, fino ad una complessità sempre più alta. 

Il suo colore era impenetrabile, il naso presentava un’entusiasmante corolla di frutti rossi attraversata da sottobosco, garrigue, accenno di inchiostri e piante officinali che sempre più nel tempo di bottiglia sarebbero diventati goudron sontuosi di spezie dolcissime. 

Come più il vino respirava per ore poi, disperdendo quei veli di riduzione, i suoi caratteri varietali iniziavano a sfoderare ventagli più importanti, ma sempre con il segno distintivo di un’approcciabilità straordinaria. Perché (e questo è il punto ed il pregio) al gusto il Neostòs era davvero travolgente, con una bocca dalla ricchezza completa, di una bontà opulenta, dolce, accattivante, vorrei quasi dire consolatoria, lenitiva di tutti i casini che ci trasciniamo dietro.

Credo che la forza unica di questo vino sia proprio nell’aprirsi ad una godibilità assoluta, come non mi è mai capitato di provare. E con una sorta di immediatezza trascinante, una facilità di intesa, di confidenza popolare che mi ha fatto ogni volta pensare a qualcosa che dovevo conoscere da molto tempo, che avevo nell’intimo ed ora ritrovavo. Erano profumi e sapori confitti nella memoria, nella storia contadina della vite e della sua essenza mediterranea. E in questo senso quello che avevo davanti era un meraviglioso rosso del nostro sud, ma con tutti i benefici impagabili della collina e della ventilazione leggera, costante, rinfrescata di sane correnti che si sollevano dal mare, che è lì sotto e lungo tutto l’orizzonte.

Aggiungo inoltre come l’apporto del Merlot mi sia sempre apparso fondamentale in questo vino. Avendolo poi assaggiato in purezza negli anni successivi, prima del taglio con il Greco nero e la Guarnaccia, posso dire che non sto parlando di un Merlot con una particolare distinzione varietale (e comunque il Merlot è il meno aromatico  dei vitigni bordolesi). Non è dunque un rosso invasivo e marcante negli aromi, ma possiede volumetrie poderose e vellutate, con una polpa cremosa intrisa di mineralità e frutti, che attinge linfe da questi particolari suoli e li trasforma in coni di dolcezza, in tannini nobili, vibranti e gioiosi. E’ nei fatti un meraviglioso contenitore di sapori che accoglie l’apporto aromatico e speziato più austero degli altri due vitigni con una naturalezza ed una sintonia stupefacente. E ne dilata in questa unione tutta la loro dimensione aromatica, ne moltiplica la carnosità, la bellezza setosa, il respiro. 

In qualche misura questo Merlot è come una storia ricca, bella, non autosufficiente però, ma che lega poi meravigliosamente con le altre due, dilatando quei loro confini ed assieme anche i propri, raggiungendo nuovi e più vasti respiri aromatici, come prendendo in questo intreccio tutte le suggestioni ed il peso di un romanzo assoluto, finalmente con una varietà, una ricchezza, una complessità di rimandi e suggestioni, una gioia e un incanto che i singoli vitigni e le loro storie non riescono ad esprimere da soli.

Nell’assaggio del vino ormai compiuto, fuso, ho avuto ogni volta l’impressione di una compagnia familiare. Il Neostòs non è un rosso laconico o che se la tira. Non è snob, cerebrale, severo, intellettualoide, supertannico e astringente. Questo vino mi è apparso ogni volta pronto, generoso, fedele, leale. Mi era accanto e apriva il mondo, le idee. In questo senso è stato sicuramente il rosso che più ho amato e goduto in questo ultimo decennio. E di certo è un’esperienza che mi sento di consigliare a tutti.

Ma, proprio per poterla vivere al meglio, occorre capire il tragitto di cantina di questi vini naturali. Come il non uso di prodotti chimici obblighi sempre a limitare al massimo il contatto del vino con l’aria, che porterebbe inevitabilmente ad ossidazioni nocive e non desiderate. Il Neostòs così nei quasi due anni che trascorre prima dell’imbottigliamento (circa 10 mesi sono nel legno) non viene sottoposto a più di due travasi (massimo tre in particolari, rare circostanze). Vino che resta dunque sempre chiuso, coperto, oserei dire bendato. E a cui si aggiungerà in seguito anche il sigillo degli anni di bottiglia. 

Proprio per questo, una volta tolto il tappo e aperto il vino, il Neostòs ha la necessità assoluta di respirare molto. A lungo e a fondo. Deve recuperare luce ed aria, per far sparire i veli che lo hanno tenuto serrato e protetto, direi quasi ibernato, per tutto il tempo precedente. Il Neostòs di fatto solo in questo momento appare al mondo. Così nasce e comincia a crescere, a prendere forma, mutando prepotentemente nel bicchiere. E, a contatto dell’ossigeno, inizia man mano ad offrire tutto il meglio del suo repertorio olfattivo. 

Lungo questo decennio mi sono reso conto, e quasi a caso inizialmente, come il Neostòs che assaggiavo il giorno dopo l’apertura (se e quando il vino avanzava) fosse decisamente superiore, più vasto, conturbante, libero e nitido, rispetto al primo colpo di olfatto che mi aveva offerto appena versato nel bicchiere. Da lì ho iniziato a prolungare l’assaggio di questo vino su più giorni per capirne le evoluzioni, le crescite, le variazioni, le dinamiche interne.

Ma al tempo stesso mi rendo conto di quanto in un consumo comune sarebbe assai difficile e complicato, se non impraticabile nei fatti, aprire una bottiglia il giorno prima, per lasciarla arieggiare. Nella fruizione del vino penso poi che bisogna sempre essere estremamente pratici e realisti, trovare delle soluzioni semplici che rendano possibile godersi il Neostòs al suo meglio, pure senza un lungo preavviso. 

Ho sperimentato così che in un caso non programmato, una voglia, una cena, un invito improvviso, si possa godere il meglio di questo particolare rosso, aprendolo e versandolo in un vetro dall’ampia superficie di apertura (una caraffa per l’acqua, ad esempio, potrebbe andare benissimo. Non sarà forse il massimo dell’estetica, ma funziona) e che ci possa essere a quel punto un’ossigenazione ricca, tumultuosa, lasciando che il vino respiri magari 1-2 ore, se c’è tempo. Il suo mondo aromatico crescerà così esponenzialmente. Ed è anche questo il mistero ed il fascino del Neostòs.

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Venendo alla storia di questo articolo, ho dunque immaginato di riassaggiare in ordine cronologico tutte le annate prodotte ed uscite in commercio finora. 

Un ultimo regalo e forse un addio alla professione in questa lunga, lenta verticale, che mi ha fatto ripercorrere l’intero decennio. 

Nell’assaggio mi è venuto più volte da pensare come nel nostro paese esista la bellezza, lo stupore dentro tantissimi luoghi estremamente famosi, con architetture, opere ammirate, persone, paesaggi, colori, musiche e, perché no, anche vini. 

Ma contemporaneamente mi chiedo quante altre meraviglie costellino i nostri territori ed esistano, siano vere e vivano, magari altrettanto importanti e sorprendenti, eppure nello stesso tempo completamente sconosciute ai più, nascoste e lontane come sono dai circuiti, dalla fortuna, dagli occhi e che rischiano seriamente il dimenticatoio della storia. 

Probabilmente è sempre stato così. Quello che emerge nelle varie epoche è soltanto un picco d’iceberg, baciato dalla fama, dalla sorte. Il resto capita che passi del tutto inosservato e totalmente nascosto, invisibile, come per buona parte dell’umanità, anche se possiede una bellezza, una bontà e una grazia altrettanto rara e grande.

Tornando al tema, sono convinto che il Neostòs Rosso sia uno dei più buoni, autentici ed integri rossi italiani del nuovo millennio. E (detto solo per inciso) anche lui d’ora in poi, come per tutti gli altri nostri vini, dovrà comunque misurarsi con le asperità molto ardue dei nuovi mutamenti climatici.


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Neostòs Rosso 2011                                                                   ?

Ovvero la sensazione di volatile. Giacomo Tachis mi diceva “Ma la volatile è anche la gran cocchiera dei profumi”. Insomma, entro certi limiti non è poi così grave. E sarà sicuramente così. Ma entriamo qui nel campo del privatissimo e del sommamente relativo. Ogni assaggiatore ha poi una propria soglia di percezione. Ed anche il valore certificato dell’acidità volatile ha una sua importanza relativa, relazionata come va ai valori di alcol, estratto secco, altre acidità, zuccheri. E se inoltre parliamo di un bianco secco o di un vino passito, di un rosso leggero o di un grande rosso concentrato.

Appunto tutto è certamente relativo. Ma il fatto è che la volatile personalmente la avverto subito e diciamo che la sua sensazione mi infastidisce abbastanza. Ora il primo campione di Neostòs ’11 ne era fortemente segnato e trovavo dunque difficile giudicarlo, proprio perché dominante a livello olfattivo. Problema che esiste del resto in tantissimi vini naturali e che nasce sin dalle fermentazioni. 

Il secondo campione 2011 che ho assaggiato aveva una acidità volatile sicuramente meno invasiva ed il vino, dopo le opportune ossigenazioni, appariva gradevole, molto fresco. I 13 anni di età sembravano non esistere. La sua polpa era sapida, anche dolce. Ma nell’assaggio ho visto solo una cattedrale in costruzione, in cui scovavo qualche tratto riconoscitivo per tutte le annate successive che avevo nella memoria, ma senza elementi di grandezza e con la volatile che tornava ad affiorare poi qua e là. 

In concreto dunque non riesco a dare un voto secco che mi possa convincere.

 

 

Neostòs Rosso 2012                                                            88

Ovvero la pacatezza. Il Neostòs qui comincia a farsi riconoscere nel suo quadro aromatico. Ma di tutti i campioni assaggiati, pur con un colore discretamente profondo, il ’12 era quello con la tonalità più granata ed evoluta.

Alla bocca si avvertiva come vino placido, morbido, con una sua dolcezza di alcol e di densità estrattiva, sicuramente piacevole da bersi, ma appunto molto languido e pacioso. Rispetto ai suoi fratelli sparsi sul tavolo era in fondo il vino più statico, più fermo, in qualche misura il più piatto, senza mostrare particolari toni, senza squilli.

 

 

Neostòs Rosso 2013                                                            95

Finalmente il primo grande Neostòs imperativo e tra tutti gli altri uno di quelli che più è andato progredendo per giorni e giorni, continuando a crescere imperiosamente, a conquistare volumi, a offrire via via nuove suggestioni, nuovi spazi, nuovi sistemi astrali.

Al primo apparire nel bicchiere il suo colore era assai profondo e mi è sembrato subito un vino dal carattere molto fisico, palpitante, ruggente, rabbioso, un leone in gabbia che sembrava chiedere spazio, tempo. Lui doveva ancora dipanarsi, far disperdere veli per tirare fuori i suoi succhi. Ed appunto da lì in poi è stato un continuo svilupparsi di impressioni chiaroscurate, caravaggesche, inchiostrate, dalle enormi suggestioni. 

Al secondo giorno emergeva ancora più palpitante, bellissimo al naso, grintoso, appena ancora amarostico, ma gran rosso, carico di fisicità e masticabilissimo, con una straordinaria ricchezza di suggestioni aromatiche, che hanno continuato a crescere fino al quarto giorno, quando appariva ancora profondissimo e chiaroscurato, di una grandiosa fittezza.

In qualche modo mi è parso il più virile dei Neostòs assaggiati, il più grintoso e anche quello che si è andato aprendo alla fine a sontuosità e grassezze impensabili prima, con delle eleganze che aveva tenuto nascoste e una godibilità continuamente densa, completa, unica.

 

 

Neostòs Rosso 2014                                                           91

E’ frutto della vendemmia più fredda e piovosa del nuovo millennio. E il Neostòs ha risposto con una versione in cui la presenza aromatica del Merlot è certamente la più avvertibile.

Colore dunque meno intenso e naso con una particolarissima nota ematica, distinta, chiara, che all’inizio tende a dominare. 

Alla cieca l’avrei definito un bordolese nordico, per quanto appariva più sottile, più acuto, penetrativo. Ma è un vino che ha poi saputo tenere per giorni e giorni. E la nota ematica, all’inizio appena insistita, si è così evoluta in leggera carne affumicata su una lunga base di dolcezza e creme, sottobosco. Il vino era piacevolissimo e vibrante, anche se diverso tra tutte le altre annate. Era sottile, però sinuoso, presente, con un’energia lunga, solida, serena.

 

 

Neostòs Rosso 2015                                                            96

E’ l’annata che sin dal primo apparire nel calice mi è apparsa come la più smagliante, perentoria e nitida, dalla grandissima ampiezza sensuale. Ed è stata quella che di fatto non ha avuto bisogno di particolari ossigenazioni. Il vino si è stagliato da subito nitido, imperativo, monumentale, dominante, carico di frutti saporosi e delizioso da bere.

Nella mia memoria (che su questo vino si è appunto dipanata man mano negli anni) proprio da questa vendemmia è nata dentro di me la sensazione che il Neostòs Rosso vivesse in un suo mondo totalmente a parte. Esisteva da un lato la categoria dei vini rossi, alcuni più importanti, alcuni più concentrati o meno, più lunghi o complessi. E poi, per conto proprio, esisteva il Neostòs, dentro un suo sistema completalmente diverso, con un’altra lingua, altri segni, suoni e grammatica, che lo rendeva nei fatti imparagonabile. 

Questo vino mi appariva insomma totalmente differente e come un contenitore di diversità, in certi casi di opposti, che convivevano però meravigliosamente. E riusciva così a stupirmi. Mi disambiguava, perché era antico ed era nuovo, avvertibilmente potente, alcolico, ma anche di alta acidità succosa che lo rendeva facilissimo da bersi. Era contadino e complesso, era gradevolissimo e profondo. Rimaneva sempre fresco, gioioso e giovane a distanza di molti anni dalla vendemmia e contemporaneamente vibrava di catrami e goudron come un grande rosso invecchiato. 

Nei fatti mi sembrava un vino commovente, appunto però diversissimo da ogni altro. Si offriva impenetrabile al colore e assieme era poi facile, immediato all’impatto (ogni persona, colta ed inclita, a cui lo ho offerto in questi anni di pranzi e cene se l’è bevuto con estrema gioia e senza cautela alcuna), ma con al suo interno tutte le raffinatezze espressive, vorrei dire le voglie, le sofisticatezze aromatiche avvertibili dagli assaggiatori più esperti. 

Questo 2015 mi è ogni volta sembrato come una grande madre, che nutre e protegge, che appare naturale e saggia. O come una serenata del Mozart di Salisburgo, la sua K 247 o la K 287, immediata, orecchiabile e assieme incredibilmente fascinosa e sublime.

Rispetto alle altre bottiglie sul tavolo, è stata per giorni la più lineare, la più precisa, la più propensa a mostrare felicità espressiva, con note di dolcezza e assieme di grandezza serena, regale, dalla femminea, ostentata opulenza. Con appunto questa caratteristica (che forse può essere anche un limite, fate voi) quella cioè di non essere cresciuta, ma anche di non aver mai ceduto in nulla nell’assaggio del giorno dopo e degli altri successivi. 

Lo so. “Ma che altro vuoi?” viene da domandarsi. Però dobbiamo renderci conto che l’assaggiatore nell’intimo è anche un bambino superincontentabile. E tutto questo può anche essere poi, ne sono consapevole, solo una questione di lana caprina. Non si fa inoltre una classifica su vini tenuti aperti dopo un primo, secondo o terzo giorno. Però, come quando i generali tornavano a Roma vittoriosi, la sfilata fino al Foro prevedeva che una certa parte del pubblico festante li prendessero ad insulti pesanti e irripetibili, affinché gli dèi non diventassero invidiosi, mandando poi disgrazie o insuccessi di certo non desiderati.

Così nelle mie note di degustazione ho avvertito il Neostòs ’15 come buonissimo. Portavo il calice sotto il naso e sentivo davvero il marchio del vino eccelso, ma che era anche sempre eguale in ogni ora e giorno successivo. Un monumento, d’accordo. Al contrario di altri suoi fratelli (che però erano partiti un po’ male all’inizio) io ho sentito il 2015 ogni volta con lo stesso magnifico corredo olfattivo, riconoscevo la medesima dinamica interna, lo stesso spazio, lo stesso respiro. Al contrario delle altre annate, non ha avuto insomma mai esitazioni, ma nemmeno variazioni.

E offro questo solo come curioso, piccolo tema di riflessione.

 

 

Neostòs Rosso 2016                                                             95

Questa annata porta invece il neo opposto di essere apparsa intrigante, ma abbastanza imprecisa al primo assaggio e, come la 2013, è andata poi mutando e crescendo impetuosamente in ogni passaggio successivo, che si è protratto (ne era rimasto abbastanza, proprio perché mi aveva meno convinto all’inizio) fino addirittura al quinto giorno. E mi ha così aperto il dilemma sulle degustazioni in serie che si fanno per riviste e guide.

Vi ho partecipato. So come funziona. Non c’è il tempo per stare su un vino più di qualche minuto e se quel bicchiere non si esprime o ha velature, sbuffi imprecisi, si passa inevitabilmente al successivo. 

E’ probabile che non si possa fare altrimenti, ma è anche il motivo che non mi fa credere e partecipare alle guide annuali. Dubito seriamente che sia questo il metodo ed il modello per raggiungere la verità, perché moltissimi vini hanno una tale personalità e una ricchezza di mondo da dover essere necessariamente soppesati, approfonditi, valutati più volte nelle loro dinamiche, nelle loro variazioni, nella loro crescita o decrescita. E questo richiede assai più tempo ovviamente, forte, necessaria competenza ed anche una sana umiltà, che non guasta mai.

Al tempo stesso però mi è anche parso di intravedere in tutte queste dinamiche del giudizio mordi e fuggi, di pareri tranciati rapidamente e spesso malamente, anche un meccanismo frettoloso, superficiale e distorto che si è andato ormai sviluppando nell’intera nostra società e direi nella nostra civiltà, quindi inevitabilmente anche dentro ciascuno di noi.

Quanti, solo come piccolo esempio, si siedono davanti al televisore e trovano una piattaforma di offerte di film e serie tv infinite e diverse? E quanto tempo diamo loro per capire se quel filmato, quella storia ci può interessare o meno? 

Se ripenso a quanto sognavo da bambino l’arrivo del giorno in cui mi era concesso di andare al cinema di quartiere, a vedere semplicemente quello che c’era e capitava. E a come poi guardavo comunque questo film trasognato e felice, mi vengono davvero i brividi. Forse abbiamo ormai troppo e siamo diventati pigramente autoriali, pieni di noi e supponenza, distrattamente assertivi, in realtà assai spesso intellettualmente modesti e passivi. 

Ad ogni modo il primo approccio al Neostò ’16 non era stato entusiasmante. Il suo colore appariva meno profondo del ’15 che avevo accanto. Naso poi assolutamente non nitido. C’era del ridotto assieme a qualcosa di non pulito e chiuso. Mi sembrava legno vecchio, anche un po’ di muffino. Eppure l’impalcatura del vino appariva molto solida. Al palato era poi assai grasso, monolitico. Ma mi sentivo infastidito di questa non pulizia e comunque era chiaro che il vino dovesse respirare, prendere aria.

Forse perché non ne ero molto convinto, l’ho riassaggiato solo dopo circa 32 ore. E in questo secondo assaggio il frutto stava uscendo decisamente più nitido, attraversato e irrorato da inchiostri e frutti. Al palato poi era sontuosamente profondo, con una grande, vellutata tattilità, che indicava una materia complessa ancora tutta però da dipanare. Gran vino che appariva poderoso, splendido e comunque in piena mutazione.

Dopo 56 ore poi questo 2016 si era finalmente districato dalla matassa che l’avviluppava. Appariva incredibilmente vivo, dinamico, di una masticabilità totale, appagante, assieme facile da gustarsi eppure profondo, completo, senza più i veli che lo avevano coperto. Sembrava virile e dolce, delizioso e complesso. 

Dopo 70 ore infine manteneva ancora un aplomb interminabile, appariva più tannico e chiaroscurato del 2015, più gentile del 2013, che avevo lì nei bicchieri accanto, ormai al loro ultimo sorso.

Dopo 100 ore era rimasto nel parterre solo questo 2016 (gli altri, per merito, per bontà erano ormai terminati il giorno prima), che mi appariva ancora come un vino meraviglioso ed integro. Era lì a stagliarsi, sviluppando voluttà, energia. Ed appunto qui il dilemma. Come giudicare questo maratoneta? Come mediare in un punteggio secco il primo inizio di performance assai poco convincente e un crescendo rossiniano poi abbacinante?

Quello che posso offrire è dunque solo la sintesi di un numero, per quel che vale. Ma la sua verità è tutta contenuta nel racconto che avete letto.

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Neostòs Rosso 2017                                                             96

Per la grandiosità monumentale questo Neostòs ’17 ha delle grosse assonanze con la 2015, ma, come due diverse facce della stessa medaglia. Quanto la prima si imponeva con fattezze, fisicità e grasse morbidezze femminee, così nel 2017 prevaleva nettamente il carattere e l’espressività virile, quella più tenebrosa, fitta, densa e inchiostrata. In qualche modo comunque questi due vini mi sono apparsi come il giorno e la notte di una meravigliosa giornata estiva.

Anche il 2017 si è manifestato buonissimo sin dalla immediata apertura, sin dal primo sorso. Non ha mai fatto storie, né si è tenuto nascosto. E’ apparso totalmente nitido, dichiarato, perentorio e lussurioso, con un iniziale strato di erbe officinali e sottobosco, china, spezie, distese e aperte su un frutto profondissimo che all’assaggio diventava di una gustosità infinita. 

Di nuovo si confermava questa traiettoria olfattiva del Neostòs in grandissima annata, che sembra preannunciare complessità, fittezze e dunque tannini duri ancora assai difficili da sbrogliare. E poi la bocca ti avvolge invece di una dolcezza e di una luce grandiosa, il palato si riempie di frutti grassi, generosi dall’intensità fittissima, folta. E nello stesso tempo ti sembra di avvertire in questo assaggio uno strano equilibrio immenso, gioioso e profondo. 

Posso sicuramente dire di aver provato un piacere straordinario su questo ’17 e di aver finito il vino al terzo giorno. Troppo buono per aspettare ancora. Non ce n’era motivo alcuno, non ne valeva la pena. Era totalmente esaustivo, completo, perenne e nello stesso tempo manteneva una freschezza, una giovinezza che mi lasciava presagire un ulteriore grandioso sviluppo.

Così, a chi potrà trovare ancora bottiglie di Neostos 2017, a questi happy few e carbonari del vino, auguro loro tutto il meglio della fortuna. Personalmente io potrò provare solo un’umana e perdonabile curiosità ed invidia. Ma le pochissime bottiglie, che ancora possiedo, me le tengo di sicuro assai e accuratamente strette.

 

 

Neostòs Rosso 2018                                                                93

Ritengo che sia stata questa una vendemmia appena più problematica per il Neostos, che inevitabilmente porta a qualche leggero squilibrio, a spigoli che si affacciano, ad incastri che non sempre collimano. Eppure al colore il 2018 è apparso come uno dei più profondi, ai limiti dell’impenetrabilità. E tonalità del genere mi fanno sempre crescere una curiosità ed una aspettativa immensa.

Il naso si è affacciato subito con una notevole riconoscibilità e dolcezza di toni, anche se macchiato da una punta di acidità volatile, non invasiva, ma di certo avvertibile. E ho già spiegato come questa cosa funzioni per me. 

Al sapore era comunque ricolmo di gustosità, il vino si lasciava bere, anche con quella sensazione di volatile proprio al limite che trascinava sicuramente l’assaggio. C’era dentro di lui qualcosa di immediato e di intenso, un carpe diem voluttuoso del vino, ricolmo di dolcezza, di presenza.

La sensazione migliore il Neostòs 2018 me lo ha poi data ad un giorno e mezzo dall’apertura. I profumi avevano acquisito più profondità, la bocca era magnifica, carica di fittezza e masticabilità. La volatile sembrava essersi dissolta nello sviluppo generoso degli aromi di frutto e da per tutto avvertivo un senso di ingordigia felice, sazia che è proprio nel timbro del Neostòs. 

Curiosamente le impressioni meno interessanti le ho provate a 56 ore dall’apertura, il vino sembrava essersi un po’ spento al naso, anche se le sensazioni al palato erano sicuramente migliori. 

Proprio perché ne era rimasto ancora, l’ho poi provato il giorno dopo ed il vino questa volta mi è parso migliorato. Aveva un equilibrio più giocato sull’alcol e sulla frutta che sui tannini, che però lo rendeva grasso, cheto, maturo. La bocca così era splendida, rasata, dolce, tutta in un trionfo pieno di godibilità.

 

 

Neostos Rosso 2019                                                              95-96

E’ stata questa l’ultima immensa annata della sequenza in verticale.

Anche qui ritornava la profondità estrema del colore, con un naso folto, complesso, ma non nitidissimo al suo primo apparire, ad indizio di una grande massa da dover aprire e districare. Mi colpiva la tattilità, la sontuosità grassa, la prestanza, la tesa giovinezza intensa, come un’appassionata elegia al mondo popolare.

Era un Neostòs molto bello e con un suo disordine arruffato, dinamico e fresco, perché qui inoltre, come sempre nelle verticali, appariva la verità e la diversità di un vino che era assai più giovane dei precedenti sul tavolo. E tanto ricco da meritare molta più bottiglia, tanto longevo da avere la necessità di altri anni per riassettarsi, mettere in ordine nei propri elementi, organizzarli, così come il tempo aveva già concesso alle vendemmie precedenti.

Se non ci fosse stato questo non perfetto nitore, l’avrei collocato come una specie di sintesi tra la 2015 e la 2017, con le volumetrie femminee, le rotonde formosità del primo e i tenebrosi catrami del secondo. Possedeva entrambe le cose, entrambi i mondi, i caratteri. 

L’ho seguito così, quasi accompagnato nei quattro giorni successivi. Dopo 32 ore giganteggiava al palato in una golosità espansiva in pura chiave Neostos, denso e fitto di dolcezze e nello stesso tempo tannico ed aggressivo. Ma aveva ancora un minimo di imprecisione olfattiva.

Al terzo giorno era al suo apice. Il colore appariva ancora più scuro e carico. Dal turbinio disordinato del suo inizio nel bicchiere aveva adesso trovato un equilibrio olfattivo tra tannini, profondità, dolcezze e inchiostri ed era un rosso immenso e superbo, depurato da qualsiasi scoria adolescenziale. Si stagliava come un’opera risorgimentale, carica di ardire, di coraggio perentorio, con una bellezza di gioventù sfrontata, generosa. E nel quarto, ultimo giorno esprimeva ancora un naso splendido e denso. Alla bocca la tannicità inchiostrata era completamente affondata nel frutto, che iniziava appena a disidratarsi, a rarefarsi. 

Pensavo “Non è un rosso, lo so, questo è il Neostòs”. Ed è curioso come alla fine dei miei anni e del mio lavoro, costellato di amicizie importanti con i migliori enologi italiani, da cui molto ho imparato e appreso, stia qui a raccontare un vino che ritengo meraviglioso, ma anche sicuramente e intimamente brado, prodotto da un gruppo di amici, tuffatisi in questa avventura degli Spiriti Ebbri, che in qualche modo, pur tra migliorie, informazioni, piccole innovazioni, desiderio di conoscenza e buon gusto, mirano nella loro filosofia a riprodurre il meglio del vino dei loro genitori, dei padri dei padri e così via, antenati, contadini di una terra di colline sul mare. E per fare questo si sono sempre tenuti distanti, dichiarandolo apertamente, da tutta l’enologia moderna. 

Sia chiaro che io non rinnego e non condanno niente di quello che è stato fatto nel panorama sfaccettato del nostro vino moderno, dei suoi enormi passi in avanti, gli sforzi, gli studi ed il cammino per dare una lingua, una grammatica ed un’ortografia all’enologia italiana. E’ un processo storico questo tuttora in atto che, come tutte le dinamiche dell’uomo, vede la nascita di stili, scuole di pensiero, anche mode, se vogliamo, così come numerosi picchi e grandi autori.

Mi sono però trovato a verificare negli anni come questo Neostòs contenga dentro di sé qualcosa in più rispetto agli altri vini, anche qualcosa che va loro oltre e seguendo appunto un antico percorso completamente diverso. C’è dentro di lui una ricchezza che sicuramente esisteva in qualche grande rosso del passato e su cui occorre necessariamente riflettere proprio per l’integrità mirabile ed esaustiva che esiste oggi nel Neostòs, per il cuore e la bellezza che manifesta, per il suo essere libero, per il suo essere per nulla preconfezionato, così come per l’integrità che mantiene e si esalta per giorni dopo l’apertura, come non avviene negli altri vini dal comune percorso enologico. 

E’ probabile che nel tragitto anche tumultuoso della nostra enologia moderna qualcosa sia andato perso e sia ora da recuperare proprio nel riassetto generale che i nuovi climi impongono a tutti. Ed è un tema ed argomento su cui mi sono sentito in dovere di testimoniare.  

 

 

Neostòs Rosso 2020                                                               90 ?

E’ l’ultimo Neostòs posto in commercio, appunto il più giovane, quello dunque con meno bottiglia e che merita di sicuro un maggiore affinamento.

Nell’assaggio ha avuto bisogno di più tempo per comporsi ed entrare nella sfera olfattiva, nel carattere del vino. Resta così un’annata da risentire e che potrà anche migliorare. 

Ma al tempo stesso ho avuto l’impressione che il Merlot, che è il grande, assoluto demiurgo di questo vino, abbia vissuto nel 2020 una stagione di sofferenza. Vitigno precoce, come sappiamo, che matura generalmente (ovvio poi che ogni regione ed altura della penisola si distingua) attorno comunque alla metà di settembre e che soffre quindi particolarmente l’afrore, la siccità, le temperature altissime di queste ultime estati, proprio mentre i suoi grappoli sono al loro ultimo step di maturazione, quando devono elaborare le sostanze più complesse, più nobili, ma anche più delicate, impalpabili e fragili. Come se un maturando venisse lasciato a dieci giorni dall’esame con tutti i suoi libri, ma completamente privo di cibo e acqua. Cosa potrà mai dare, ammesso che sopravviva?

Si affaccia e ritorna qui quello che sarà dunque il grande tema dei prossimi decenni. Come mantenere questa qualità e appunto la longevità, la bellezza, l’equilibrio, la profondità nei nostri vini dentro un clima che sta diventando fortemente ostile?

Tornando a questo 2020, ho avuto appunto l’impressione che la componente brillante e trascinante del Merlot sia insomma venuta un po’ meno. Ed il vino appare più austero, più triste, con una decisa prevalenza dei tannini sul frutto, come non era nelle grandi annate del Neostòs, ed al tempo stesso l’intero viluppo sembra scomposto, ancora alla ricerca di una sua fusione.

Prolungando la degustazione nei giorni, come per gli altri, il vino però non si è perso, tutt’altro. Dopo 32 ore il naso iniziava a rientrare nell’alveo del Neostòs, dentro una sua prima riconoscibilità, seppure ancora sfrangiato, senza una particolare, decisa incisività. Dopo 56 ore questo 2020 si andava inchiostrando ed appariva ancora vitale e crudo, seppure con una forte componente tannica a soverchiare il frutto. 

A dimostrazione dell’integrità e della forza del vino gli ultimi due assaggi, a 70 e poi 86 ore dall’apertura, sono stati positivi. Sentivo come tenesse l’estratto grasso ed alcolico a bilanciare i tannini. Appena deficitaria era però la forza aromatica del vino, a confermare tutto il suo carattere laconico ed austero.

Anche qui, nel graffio, nella scompostezza che avvertivo in questo Neostòs 2020, mi è tornato l’interrogativo e la preoccupazione che mi perseguita in questi ultimi anni. Il dubbio cioè che la fase di crescita esponenziale del vino italiano, quella baciata dalla fortuna del clima materno e generoso sia ormai trascorsa e si stia andando incontro ad un periodo molto più complicato, dove tutto sarà rimesso in gioco, con un equilibrio dei risultati sempre più precario e di qualità assai inferiore, arrivati al termine di ogni fatica e stagione.

Oppure, non so, tutto questo è soltanto un mio cruccio personale, il timore di un anziano che osserva un incontrollabile giro di boa della natura. E magari potrà tornare armonia tra qualche tempo, dubbi e nuvole spazzate via. Potrà forse esserci ancora pienezza e gioia nelle vigne, così come dentro ogni loro frutto.

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