Neostòs e Appianum, i temerari
Di Luciano Di Lello
Ho letto una frase che mi ha molto colpito giorni fa e che si può tranquillamente estendere al mondo del vino. Qualcosa che potremmo tradurre come “Il produttore è figlio del suo tempo, ma guai se ne è anche il discepolo o il suo favorito”. Nei fatti ho la netta impressione che molte nostre etichette pluridecorate, di quelle che appartengono ad una consolidata elìte inscalfibile di produttori famosi, siano completamente dentro questo percorso, con vini buoni e scontati che si guardano compiaciuti nello specchio, replicandosi di continuo, senza più niente di temerario e di creativo, se pur l’hanno mai posseduto.
Penso insomma che i vini che fanno ricerca, che indagano in ogni vendemmia nuove possibilità e sentieri di profumi e sapori, siano tutti altrove e vivano oggi dentro una silenziosa bolla di invisibilità. Di loro poco si parla e meno ancora se ne scrive, a riprova del paludoso ristagno di idee nel quale tutti conviviamo in questi ultimi anni e dal quale sarebbe pure necessario schiodarsi con un deciso colpo di reni.
Dico allora che i vini rossi che mi hanno più incuriosito e colpito in queste ultime vendemmie sono stati il Neostòs e l’Appianum, che nascono dalle super raccontate colline di Lappano, ai piedi della Sila. Vini che ho scoperto sulla vendemmia 2011 e che da lì si sono dipanati in ogni nuova annata incredibilmente suggestivi, palpitanti, accorati, gustosissimi e diversi, frutto di vigne incontaminate da ogni chimica, che fermentano soltanto con lieviti indigeni, i quali amplificano le imprevedibilità di ogni distinta vendemmia.
In questi rossi non c’è niente di codificato, ogni anno si cerca qualcosa in più, nei tempi di macerazione sulle bucce, nell’assemblaggio dei vitigni, nella qualità dei grappoli. E questo porta ad una vendemmia sempre piena di tentativi, soluzioni, dubbi, avventura. Così il risultato finale esalta e sorprende. Questi vini sono un succo che deborda, sono felici, attrattivi, inconsueti, nuovi, eppure con un che di atavico e primordiale.
Il Neostòs nasce da due vigne di Greco Nero, Guarnaccia Nera e Merlot. Tra i due rossi è quello più disposto a concedersi, il più ridondante e sorridente, dal carattere generoso e una bocca sapidissima e franca. Picco sulla vendemmia 2015. La ’16 poi più carica e densa, con un che di voluttà sovrammatura. E una ’17 appena imbottigliata che cammina con inediti aromi dai tratti più profondi e tenebrosi.
L’Appianum nasce da una vecchia vigna di Gaglioppo, Greco Nero, Magliocco Canino e Dolce + antichi autoctoni non tutti identificati. Rosso dal carattere più solenne, terso ed aristocratico, che cresce in sontuosità ed intensità con la 2016 ed ancora più con la ’17. A dimostrazione di quanto con rigore e creatività (oltre all’aiuto di una natura benevola) si possa vedere ingigantire i tratti dei propri vini, offrendo all’appassionato non qualcosa di sentito ed atteso, ma un panorama di impressioni che operano uno scarto sulle nostre aspettative e ci incuriosiscono al punto da dare una luce anche a un giorno qualsiasi.
Del Neostòs e dell’Appianum esistono poi anche le versioni rosate. E devo confessare la mia scarsa propensione per questo vino. Forse non è un vero e proprio pregiudizio, magari è l’esito dei troppi rosati insignificanti e banali che mi sono passati davanti in questi decenni. Così, quando con la vendemmia 2015 li ho scoperti, aprendoli quasi di malavoglia, sono rimasto di stucco, tanto erano freschi e ridondanti di frutto generoso, grasso, sapido, buonissimo. Ad occhi chiusi apparivano come magnifici rossi giovani, svettanti, dolci, dal succo delizioso. Ed ancora una volta la 2017 oggi esprime il suo picco più alto, con il Neostòs a confermarsi nella sua debordante, gioiosa immediatezza, mentre l’aristocratico Appianum esce alla distanza, più deciso ed intenso. Sono i migliori rosati che ho bevuto, opera di Spiriti Ebbri, avventurosi e sconosciuti.
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