Montalcino 2009, 2008 …

Forse dovrei iniziare con un rimando alla lettura de “Gli anni di Poggio di Sotto” nella sezione Storie. E’ un racconto un po’ lungo, lo so, perdonatemi. Se potete però provate a leggerlo. E’ una premessa a questo lavoro, ci sono dentro molte cose sul senso dell’assaggiare e scoprire il vino, i suoi luoghi, le persone ed anche una serie di considerazioni sul Brunello, su come e quanto si sia evoluto in questi decenni (e come ci siamo evoluti anche noi), che vanno sempre tenute a mente.

Del resto è inutile ripetersi, il tempo di tutti è prezioso. Ma seguendo questo territorio praticamente dal 1974, avendo negli occhi e nel palato una prima, seconda, terza, quarta ondata di produttori, ho sempre la sensazione, quando penso a Montalcino, di un magma di note, di gusto, con sapori e profumi in continuo movimento espansivo e con una loro crescita qualitativa, direi, ineluttabile. Con un testimone tuttavia che non resta mai fermo, ma che passa di mano in mano, da produttori che venti anni fa mi sembravano l’avanguardia, il futuro e che ho visto poi perdere via via forza propulsiva, che si sono adagiati un po’, magari ripetendosi, mentre altri si andavano ad affacciare e si confermavano con nuove idee, nuove vigne e una verità perentoria in pieno, inedito divenire. Come del resto ci racconta la giovane storia dell’intero vino italiano di qualità.

E’ un mondo competitivo il nostro. E nel vino credo che questo si esasperi (ed è un bene tutto sommato), anche perché ogni nuova annata è un cimento diverso e l’esito ce lo giochiamo in un’infinita serie di variabili, dentro cui trovare l’incastro giusto o la soluzione meno sbagliata per quella particolarissima circostanza e situazione. Però la mossa errata condiziona poi tutto il resto, può essere il paradiso o l’inferno, fermo restando che il purgatorio dà inevitabilmente un vino mediocre.

Per come la vedo io, per come l’ho vissuta in tutto questo tempo, credo anche che difficilmente un produttore possa mantenere questa tensione, questo ago puntato verso l’alto, al meglio e all’assoluto, per diversi decenni. C’è qualcosa di umano nel suo possibile calare di forze, di voglia, di idee. E non dimentichiamo che fare un grande vino è anche un lavoro di gruppo, che si basa su collaboratori di estrema affidabilità e capacità, dall’agronomo, all’enologo, al cantiniere e poi su investimenti giusti in quella vigna, con quel sistema d’allevamento, quel portainnesto, quei biotipi di vitigno. Basta così che qualcuno di questi tasselli venga meno o muti oppure non dia il risultato sperato ed è tutto uno scivolare ed un assestarsi su altri livelli e fasce.

Infine ritengo soprattutto che arrivare al grandissimo vino sia possibile solo attraverso una notevole cultura del vino ed una sensibilità verso il bello e il buono del tutto fuori del comune. Ma essere capaci di una felicità espressiva di questa portata è anche un dono non eterno.

Calvino diceva che si è in fondo scrittori di un solo romanzo. Anche grandissimi autori in una sola opera hanno rivelato tutto il meglio e l’originalità di se stessi. Per il resto si sono spesso ripetuti, certo con qualche guizzo, qualche intuizione in più, ma il grosso, il sangue e l’anima, l’avevano ormai già data.

Ho visto così salire e scendere decine di aziende ed etichette in questi 40 anni ormai dal mio primo viaggio a Montalcino e sempre con una dinamicità, una rincorsa e la sorpresa poi di un’unicità irripetibile altrove. In ogni anno c’era davvero qualche etichetta sconosciuta che mi meravigliava. E questo è il bellissimo del mio lavoro, che mi fa ancora cercare e indagare, che dà fiducia e mi sembra splendido. Perché in tutto il vino italiano c’è tantissimo che ci può sorprendere, che magari deve ancora nascere o deve essere tentato. E’ un futuro buono, generoso che abbiamo davanti e aiuta a mantenere dentro di noi l’aspettativa e la sorpresa di un adolescente, la sua capacità a sapersi stupire davanti alla nuova scoperta di profumi e sapori mai sentiti prima. Perché Montalcino, nonostante tutta una certa retorica sull’antichità e la tradizione, è invece un territorio giovanissimo al vino. Si può anzi dire che la cultura del grande vino qui sia nata da pochi anni e sono convinto che il meglio debba ancora venire.

Il fenomeno-Brunello, la sua fortuna mondiale è come scoppiata tra le mani dei primi produttori, improvvisamente, quasi senza che ne fossero pronti. Con una crescita esponenziale poi degli ettari vitati a Brunello, dai 270 di quel lontano 1974 a quasi 2.000 oggi, e anche dei produttori che, dai pochi di allora, sono adesso assai più di 200.

Un cambio di passo e di numeri impressionante. Ma Montalcino sin da allora, pure in mezzo a vini talora incerti, rivelava l’evidenza di un potenziale e di un’originalità talmente alta, da divenire poi nei decenni successivi un enorme laboratorio del Sangiovese, con forti investimenti, interventi ed intelligenze arrivate anche da altri territori dell’Italia e del mondo. Questo febbrile, ingegnoso attivarsi ha così sbloccato un territorio bellissimo e immoto (non dimentichiamo che fino a tutti gli anni ’60 Montalcino risultava essere il comune più povero del Senese), dando un contributo immenso e una dinamicità fortissima alla crescita della cultura del vino e dunque alla qualità complessiva dei Brunelli che andavano via via nascendo.

E in ogni storia c’è poi una logica. Nessun investimento nasce a caso, tanto più se di portata così vasta. Il fatto è che appariva chiaro come qui il Sangiovese donasse dei risultati assolutamente superiori ed emozionanti, tali da riscrivere i parametri del vitigno e metterlo al livello dei grandissimi del mondo. Parlo ovviamente di macrozona. Ci potrà essere sicuramente una vigna o un microsito della Toscana dove questo vitigno può dare ottimi risultati. Ma in nessun altro territorio il Sangiovese riesce ad esprimere la raffinatezza di toni, la vastità, l’intensità, la compattezza, la concentrazione, l’opulenza, lo spessore, la profondità e la complessità corale come sulla collina di Montalcino, con i suoi quattro diversi versanti, i suoi diversificati strati di terreno che salgono dai 150 metri di altitudine ai 550, creando un’infinità di splendide, voluttuose e a volte tumultuose variabili.

Certo occorre poi tempo perché questo si manifesti e si fissi in modo compiuto (solo per arrivare a presentare sul mercato una bottiglia di Brunello, tra impianto di vigne, crescita delle piante e periodo obbligato di cantina, trascorrono di fatto una decina di anni). Così i risultati di tutto questo passaggio e della sua storia li ho avvertiti in un crescendo continuo, ma che è divenuto fortissimo nell’ultimo decennio.

Nonostante il massiccio aumentare dei numeri potesse essere un rischio per il livello finale del vino, sono convinto che oggi la qualità media del Brunello sia notevolmente più alta che nel passato. Negli assaggi che compio annualmente su tutte le etichette in commercio, verifico come trovare un Brunello con dei difetti gusto-olfattivi sia oggi assai difficile. Mentre 15-20 anni fa si avvertivano sicuramente molte differenze tra un’elite di produttori di fascia alta ed altri, più numerosi, con vini invece limitati da ossidazioni incipienti o da profili olfattivi non corretti, frutto di errori tecnici e anche di legni vecchi e stanchi.

Nella bellezza sostanziosa di questi ultimi risultati mi rendo dunque conto di quanto tutta la nuova storia di Montalcino (e la storia ha sempre un senso) con le sue nuove etichette apparse trovino così ragioni e indiscussi meriti.

Allora qualità media alta, dicevo, ma io cerco il picco per I Migliori Vini della Nostra Vita. E dunque su una vendemmia complessivamente difficile come la 2009 e sostanzialmente media come la 2008 emergono comunque produttori di assoluto livello (perché mai totalmente ignorati dai grandissimi giornalisti del vino italiani? Mi sono risposto con un serafico “Mah”) ed anche di una fascia geografica che è stata assistita da un andamento climatico migliore, in una linea est-ovest dalle curve dell’Ombrone (Cupano) a risalire verso Tavernelle (Caprili, Maté), arrivando al suo punto più alto con San Polino, e proseguendo poi in discesa verso Castelnuovo con la scoperta esaltante del Podere Le Ripi. Unico grande Brunello 2009 apparentemente fuori zona sarebbe il Verbena, novità sorprendente, con vigne curate come giardini sulla strada, dopo aver lasciato la Cassia, che sale verso il paese, quasi al termine della maggior pendenza della salita, un attimo prima del curvone. Ma azienda questa anche con altre importanti vigne a Castelnuovo dell’Abate, proprio lì dove il tempo è stato benevolo. E così dunque tutto torna e tutto si spiega.

Un’ultima nota infine (ma dovevo probabilmente scriverla prima e vale allora per ogni vino assaggiato in questo mio sito) in merito ai punteggi che presento.

Sappiamo tutti noi come la stampa americana non lesini ogni anno valutazioni altissime con dei 98, 99, anche 100/100. E tutto questo è assai rispettabile e fa parte comunque di un metodo e di una loro cultura generale, che parte comunque da parametri e informazioni diverse. Amo del resto molte cose dell’America. Sono cresciuto con il cinema americano dentro gli occhi. Ho immaginato inevitabilmente molto futuro attraverso quel loro schermo e non rinnego niente.

Però, se sento dire che dobbiamo ormai tutti adeguarci a questo, che i punteggi della stampa americana fanno il mercato e noi non possiamo dare valutazioni più basse, c’è qualcosa che non mi torna in quanto a verità, che è poi quella che vorrei perseguire.

Credo appunto che tutte le nostre etichette abbiano davanti la possibilità di un’ulteriore crescita esponenziale e che molto c’è ancora da fare. La nostra esperienza di vigna e di vendemmie ad alta qualità è ancora piuttosto scarsa (e i mutamenti climatici in atto sono poi un’altra variabile impazzita di cui tener conto). Inoltre nella stragrande maggioranza dei casi le nostre vigne sono ancora abbastanza giovani, le fittezze delle piante, i sistemi di allevamento, le metodologie di cantina tutte ancora da affinare, da verificate, in taluni casi da cambiare.

Siamo davvero nel mezzo di un grande fiume con le sue correnti, fondali nascosti, improvvise rapide. Il futuro darà sicuramente vini ancora più grandi. E quando un vino mi emoziona e gli do, non so, un 93, ho alle volte quasi l’impressione di esagerare, penso che quell’etichetta tra dieci vendemmie potrà raggiungere valori molto più alti e sfondare davvero quota 100.

Allora come se ne esce dunque? E certamente l’ultima cosa che voglio fare è quella di penalizzare i nostri vini. Ma d’altronde sono anche cosciente che la mia valutazione rimarrà in un ambito nazionale (ed è già tanto). Volo basso e non ho alcuna pretesa o ambizione che quanto scrivo sia di lettura interstellare.

Credo così alla fine che l’unica cosa giusta sia quella di essere sinceri con se stessi. Se al vino che più mi è piaciuto durante l’anno, con tutto quello che so delle sue vigne e della sua storia, penso di dare un valore altissimo come 94-95 e che è quella la sua valutazione reale, in tutti i limiti della mia privata e dunque relativa estetica, non posso poi tramutare il voto in 99 per fare l’americano. Non mi sembra davvero corretto e non trovo che questo abbia alcun senso logico ed etico.

D’altronde i vini che prendo in considerazione nel mio sito (con talune eccezioni per il rapporto qualità-prezzo) partono in sostanza da un valore di 89 punti. E da lì in su sono tutti gradini pesantissimi da scalare. Come per una vettura di Formula 1, che per arrivare ad una velocità di punta di 5-10 chilometri in più, rispetto a quella prodotta in precedenza, ha bisogno di una fatica, uno studio, un lavoro, una ricerca, una messa a punto e di un investimento economico costosissimo.

Così in un vino, per come lo sento, salire oltre i 90 punti significa l’ingresso in un rango di eccellenza straordinaria. Insomma, teniamoceli cari questi punteggi oltre i 90, senza sparare alle allodole con poco realistici 98, 99, 100 e poi un gran bum. Lavoriamo per migliorarci tutti, tenendo finalmente conto, oltre il voto, il numero bruto, di quanto si scrive sul vino, delle motivazioni di un articolo, del perché si ritenga quell’etichetta importante, quali sono le qualità e le particolarità che quel vino possiede ed esprime, che differenze ci rivela rispetto alle altre, cosa di nuovo dice all’interno di quella DOCG. Credo che questi conti e sia significativo. E sia un lavoro e un giornalismo vero, che aiuta il lettore a capire, che crea reale cultura del vino e forse è anche un po’ utile al produttore per migliorarsi.

Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.