Mignechi 2013 90-91
Mignechi 2012 89-90
Amongae 2012 88-89
Amongae 2011 87
Cerasuolo di Vittoria Vigna di Pettineo 2013 85-86
Cerasuolo di Vittoria Vigna di Pettineo 2012 85
Altra azienda in ascesa con ricchi e recenti investimenti in vigne di diversi poderi dell’aerale, che arrivano oggi a 50 ettari di filari, condotti a regime biologico.
Anche qui, come è logico e giusto, si punta molto sulla Docg Cerasuolo di Vittoria, in una versione tuttavia più scorrevole, meno complessa e concentrata, che nasce da un rapporto paritario di Frappato e Nero d’Avola, che fermentano e maturano poi solo in vasche inox. Abbiamo assaggiato il suo Vigna di Pettineo nella vendemmia 2012 e nella 2013, ormai in uscita. Parliamo di vini assai invitanti, dai bei profumi radiosi, gustosi, che mirano ad una importante immediatezza e sapidità, con un bel colore rubino vivo, la bocca saporita e masticabilissima, piena di freschezza e godibilità (vini inoltre dall’ottimo rapporto qualità-prezzo). Abbiamo un leggera preferenza per il 2013, che offre ancora margini di crescita, mentre la 2012 ci appare oggi al suo pieno di radiosità.
Interessante poi il contemporaneo assaggio del Nero d’Avola Vigna di Pettineo 2013, che proviene appunto dagli stessi vigneti, vinificato e maturato, come il Cerasuolo, solo in vasca inox. Parliamo appunto di un buon rosso anche strutturato e con un suo accenno di importanza, come è nel carattere del vitigno, complessivamente più severo, anche gustoso in bocca, ma dal tannino un po’ prosciugante. Ed anche qui mi sono convinto, nel confronto, che l’apporto di un buon Frappato migliori il complesso del vino, lo faccia più sorridere e lo si beva con più piacere e gioia.
Arriviamo così all’etichetta che ci ha più colpiti, il Mignechi, che è proprio un Nero d’Avola in purezza dal Feudo Pignatelli. E potrebbe sembrare una contraddizione con quanto detto prima, ma parliamo in questo caso di un Nero d’Avola con tutto un altro passo e di altra categoria, nato da una piccola produzione eletta di circa 6-7.000 bottiglie da una vecchia vigna ad alberello nel pieno dell’Oasi Naturale del Lago di Biviere. Le uve sono dunque raccolte in piena maturità e, dopo una fermentazione di 2 settimane sulle bucce, il vino viene poi elevato per circa un anno in barrique.
Qui insomma il Nero d’Avola, fortemente selezionato e da una microarea particolarissima e protetta, è messo al meglio per dimostrare la profondità del suo carattere e smussare quelle ruvidezze tanniche, che la cura dei migliori legni volge e trasforma poi in profondità, bellezza, cremosità e tenuta nel tempo.
Assaggiato sul 2012 e 2013 (anche qui, a nostro avviso, è l’ultima annata ad avere quel guizzo in più di spessore, energia e vastità di aromi e sapori), ha offerto le sensazioni di un gran rosso armonioso, dal bel carattere e dal ventaglio olfattivo vasto, caldo, pieno di creme. Più femmineo e languido nel 2012, più profondo e inchiostrato nel 2013, come se il vino abbia compiuto un passo in avanti nella concentrazione e nella ricchezza, diventando adulto e aprendo un pentagramma aromatico che dalle prime note di caramello, volge poi alle more di rovo, ai ribes neri su un intrigante sfondo fumé. Ed alla bocca conferma tutta la notevole armonia di sapori, la vasta gustosità sapida ed il carattere e l’integrità del Nero d’Avola. Etichetta in cui credere, cui forse manca appena quel pizzico di maggiore concentrazione per entrare nel lotto dei massimi vini rossi italiani. E che vorremmo seguire con attenzione nei suoi futuri sviluppi.
Altra etichetta in cui credere e puntare è poi l’Amongae, che nasce da un blend di Nero d’Avola 60%, Cabernet Sauvignon 25% e Merlot 15%. Inutile dire che già tra la vendemmia 2011 e la 2012 c’è un bel passo in avanti, con un’articolazione ed una varietà aromatica, che lascia davvero pensare alle potenzialità di questa terra del Barocco. Ma a mio avviso si può fare ancora di più su questo vino, giungere a raccolte più avanzate, puntando di più su una superiore opulenza, concentrazione e grassezza di frutto, dando insomma il segno di qualcosa di più estremo. E se è giusto puntare sul Cerasuolo di Vittoria come bel rosso fragrante, gustoso, anche scorrevole, che si richiama probabilmente alla storia di questo vino, penso che su quelle uno-due etichette di punta si debba calare l’asso, arrivare insomma ai limiti estremi che il territorio può dare.
E’ un discorso questo che riguarda tutto il vino italiano e mi rifaccio così alle conversazioni avute negli ultimi tempi con tanti enologi e produttori della Penisola, che mi parlavano della crisi economica, di certe difficoltà di vendita e collocazione per rossi ricchi, importanti, specie se provenienti da aree ancora poco conosciute per vini estremi. Cui rispondo che le congiunture economiche sono in una dinamica di continue, oscillanti variazioni, cui occorre essere sempre preparati, ma che il grandissimo vino è una imprescindibile scuola di ricerca per le aziende e che lo si può anche produrre in un numero assai limitato di bottiglie, che diventano però un fondamentale patrimonio di conoscenze per il produttore e l’azienda, che quello è il vino-bandiera di veronelliana memoria, la dimostrazione di quanto si è capaci di fare e che da lì, nelle varie ed alterne fortune delle umane cose, può partire una degustazione (in Italia o all’estero), un evento, un articolo, un premio, un riconoscimento, che con il suo riverbero fa poi conoscere l’intera azienda e la proietta in una nuova e più importante dimensione.
Trovo insomma che ogni bravo produttore debba avere almeno un’etichetta in cui si tocchi o si cerchi di toccare il massimo potenziale dell’azienda e del territorio, un vino insomma su cui anche esagerare per un risultato estremo, assoluto, da valutare via via nel tempo, a capirne tutte le evoluzioni e le possibilità espressive.
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