Nei vini amo quello che c’è di estremo, di intentato, lo scatto, l’onda d’urto che, già all’assaggio, al primo colpo di aromi, crea immediatamente nuovi spazi e apre le porte all’immaginazione. Quei vini che in qualche misura riescono ad andare oltre noi stessi e ci sorprendono, ci stupiscono.
So dunque per esperienza quanto non sia facile trovare e soprattutto arrivare a risultati di questa specie, misura, spirito. Conosco appunto i rischi che un bravo produttore deve correre continuamente, tentando con coraggio, sperimentando, non avendo pace in nessuna nuova vendemmia per arrivare al livello più alto possibile, come nel segno di un destino. Ma è in fondo questa anche la migliore parafrasi dell’intera storia umana. Ed il motivo per cui il grande vino intriga, colpisce l’emozione, ce ne fa parlare.
Il mio primo assaggio dei vini di Trinoro è stato così nel maggio-giugno del 2003. E rapporto questa storia alla precedente, perché fu proprio Piero Palmucci a parlarmene al telefono. Lui era tornato da una manifestazione del vino in un qualche paese dell’Europa e si era trovato accanto Andrea Franchetti, appunto il creatore, l’homo faber, come dicevo prima, della Tenuta di Trinoro. Ne aveva appunto assaggiato i vini ed era rimasto colpito.
Anche qui torno all’idea di una certa universalità nella bellezza e nella grandezza di un vino. I rossi di Poggio di Sotto e quelli di Trinoro erano abissalmente diversi e lontani, davvero due mondi distanti anni-luce e due concezioni del tutto differenti del vino. Eppure Piero Palmucci aveva capito che dentro quei rossi così lontani da lui c’era qualcosa di profondamente importante. E mi telefonò per parlarmene.
Io di Franchetti sapevo poco. Quello che avevo letto riferiva sostanzialmente di strane etichette vendute a caro prezzo. Ma come al solito la stampa italiana del vino, nella sua eterna pochezza, aveva ignorato quanto di profondo ed estremo si andava muovendo su questo versante interno del Monte Cetona, in un terreno praticamente intentato alla vite, con un’altitudine ed un microclima ai suoi estremi limiti.
Così telefonai qualche giorno dopo. Mi rispose Andrea Franchetti. Mi presentai. Con qualche titubanza chiesi dei campioni, che arrivarono invece subito, a stretto giro di corriere, e in abbondanza. Mi era stata mandata in pratica una ricca campionatura di tutte le annate ed etichette prodotte, Tenuta, Le Cupole ed anche il Palazzi, che in quelle prime vendemmie era una sperimentazione di fatto di Cabernet Franc con percentuali di Merlot. L’assaggio, come al solito, avvenne due settimane dopo, a lasciar riposare i vini dagli scuotimenti e da tutte le possibili traversie del viaggio. E qui, nell’aprire queste bottiglie ci fu un vero colpo al cuore. A partire dal Le Cupole, che in qualche misura era di fatto un vino-base, io rimanevo di stucco a guardarli per quanto erano profondi al colore, a sentirli, ad assaporarli, per come apparivano infinitamente ricchi e carezzevoli già ai profumi. Tutti quei rossi, versati nei calici, si sollevavano superbi, con una concentrazione di frutto, di dolcezze, una classe poi, una bellezza e una vastità una polifonia nella disposizione degli aromi, una sostanza carica di sfumature, di toni inediti, di sorprese timbriche che si moltiplicavano al palato. Vini che parlavano, ognuno con una sua storia, pure partendo da un ramo comune, e se n’andavano via via verso una propria direzione e con una personalità, una classe, una sonorità distinta, una morbidezza rabbiosa, per quanto appariva infinitamente densa e carica di divenire.
Su tutti poi il Tenuta di Trinoro 2001, il risultato più alto ottenuto in quegli anni, gigantesco eppure perfettamente bilanciato, con bordate di deliziosi frutti rossi e neri che straripavano di fitta e fonda polpa matura che non finivo mai di assaporare e masticare. E contemporaneamente mi venivano continui sensi di angoscia al pensiero di stare assaggiando un grandissimo vino, probabilmente il più buono che avessi mai bevuto fino ad allora, ma ancora troppo giovane, superbo, geniale, ma sicuramente crudo, non completamente compiuto ed in pieno movimento. Con la bottiglia davanti che era oramai aperta, stappata e così era come perduta, consumata. Non c’era più. Non ci sarebbe più stata forse. Mi sembrava tutto uno spreco infinito con l’impossibità di poterlo ormai più cogliere nel futuro. E così continuavo ad assaporare questo rosso strepitoso, a cercarne il gusto, i toni, a coglierne l’essenza, il suo nucleo più antico e segreto e mi veniva in mente l’ultimo verso di Philip Larkin in High Windows “and is nowhere, and is endless”.
Inutile dire che sarei presto andato a Trinoro, che qualche bottiglia di Tenuta 2001 fortunatamente ce l’ho ancora e la conservo, che avrei seguito l’azienda da allora in tutte le sue vendemmie successive (ed alcune sono state poi addirittura migliori di questa, dico la 2011 ad esempio, forse anche la 2009, buonissime comunque poi la 2006 e 2007, ma le piante che maturano in vigna sono destinate a questa crescita fortunatamente), che di Andrea Franchetti, geniale e umorale, ho un’enorme stima e una grande amicizia, oltre che una fitta corrispondenza e-mail, molta della quale anche in romanesco, vista la comune origine, con la comodità del tasto rispondi che ha ormai dilatato all’infinito il ma’ndo stai? della dicitura “Oggetto”.
Volevo però a questo punto fare un po’ d’ordine, tornare ad uno stile più asettico, ad un resoconto più oggettivo, perché credo che la storia di Trinoro, nel contesto della viticoltura italiana sia come una divaricazione a parte, separata, quasi violenta, che ha lasciato così lo spazio a vini assai più personali ed emozionanti di quanto non si facesse prima. Se la valutiamo proprio sul piano storico la vicenda di questa azienda segna uno dei primi importanti e reali passaggi che ha visto il trascorrere il nostro vino dall’età scolastica a quella adulta. Dal prodotto dell’enologo, che diffonde una prima ortografia e grammatica lungo infinite aziende della penisola (momento, a mio avviso, storicamente necessario e dunque non disprezzabile) a quello dell’autore colto che percorre da solo, con molto più rischio e coraggio, la successiva fase di elaborazione, quella assai più ampia, complessa e matura che non si ferma al buon vino tecnicamente corretto. Ma andando dunque oltre e sfondando anche certi limiti formali, con, per taluni aspetti, anche il possibile ritorno e riaggancio a quella ricchezza di risorse dell’antica individualità contadina (in tutta la sua infinità di spazi e tentativi ancora possibili e realizzabili), attraverso la sterminata variabilità di vigne e vitigni della nostra penisola. Ma potendoci arrivare oggi con molta più sapienza, mezzi conoscitivi, magari possibilità economiche e così anche estremismo di sperimentazione.
Un cambio di passo totale insomma. Come dalla banale scrittura di un tema scolastico alle complessità di un romanzo. E con l’entrata in scena di altre e nuove sensibilità e intelligenze, che, anche dal travaglio delle loro storie private, scoprono una profonda motivazione al vino, non più e non solo mercantile ragione di guadagno, ma, più ampiamente, di vita, di completo atto creativo.
Trinoro poi, nel caso specifico, nasce come da un ripiegamento. Siamo nel 1990. Andrea Franchetti ha 40 anni. E una vita intensa e inquieta alle spalle. Aspettative esistenziali che sembrano dilapidate e concluse. L’ultimo periodo vissuto soprattutto a New York.
In una Trinoro che è in completo abbandono, lui trascorre così sei mesi totalmente isolato. “Vivevo in un casale mal messo, come una specie di barbone”, mi ha raccontato poi, ma cercando continuamente quello che poteva essere il senso vero del proprio futuro.
Da questo inabissamento Andrea Franchetti esce deciso a vivere lì e a tentare su quelle rampe di terreno, al principio della Val d’Orcia, ad un’altitudine tra i 500 e 600 metri, un vino assoluto e totale, che possa essere il più buono e sorprendente possibile. Il punto di riferimento sono le etichette che lo hanno più colpito negli anni precedenti. I grandi vini di Bordeaux. E dunque i suoi vitigni.
Iniziano da allora numerosi e lunghi soggiorni nel bordolese, vivendo la nouvelle vague che in quegli anni attraversa soprattutto Saint Emilion, dove lui si va costruendo come possibile autore di vino, cercando di studiare e capire ogni passaggio, stringendo amicizie, dal vivaista all’agronomo, al direttore di cantina, all’enologo, incamerando continui e infiniti dati, poi notizie, intuizioni, dettagli.
Dal ’92 al ’99, con una squadra di operatori francesi, inizia ad impiantare a Trinoro tre ettari di vigna ogni anno, con una fittezza di 9.400 piante. Al 60% sono di Cabernet Franc, poi a scalare Merlot, Cabernet Sauvignon, Petit Verdot.
Le selezioni clonali vengono dall’Istituto di Blancfort, quelle a chicchi più piccoli. Ma numerose sono anche le selezioni massali di vecchie microaree che danno straordinarie partite di vino negli Chateaux di Saint Emilion e delle Graves.
Il sistema di potatura è a doppio Guyot. Fondamentale poi il drastico il diradamento dei grappoli, lasciando infine appena 300 grammi di uva a pianta.
Primo raccolto nel ’95. Ma nello stesso tempo occorre capire il territorio, le sue parcelle. Si vendemmia così solo a piccole macchie, passando più volte e per un lungo periodo nelle vigne, raccogliendo soltanto grappoli perfettamente maturi. Si fermenta poi separatamente ogni minipartita in vasche piccole e larghe, piene per metà, omogenee per qualità delle uve e vitigno. Svinando dopo circa 10 giorni.
Le prime due vendemmie, in qualche misura sperimentali, dopo 18 mesi di barrique, vengono imbottigliate come Le Cupole (nome che poi dalla ’99 sarà dato al secondo vino di Trinoro). Assaggiate ora rivelano, soprattutto la ’96, un rosso magnificamente concentrato e cupo, con particolari voluminosità e dolcezze di frutto ai sapori, ancora non del tutto dichiarato e messo a fuoco però ai profumi.
Con la ’97 la crescita progressiva delle uve e delle tematiche di cantina portano al primo Tenuta di Trinoro. Vino che poi, portato a Bordeaux e posto in degustazione cieca accanto ai più prestigiosi Chateaux di pari annata, segnerà la nascita di questo vino-mito, raro e di conseguenza carissimo.
Nella stessa vendemmia, seguendo una chiave di sperimentalità che è comunque sempre continuata a Trinoro, viene creato I Palazzi, da un taglio Merlot-Cabernet Franc, riproposto poi nel ’98 e nel ’99. L’assaggio di questa etichetta offre un vino similare nel profilo al Tenuta di Trinoro, di straordinaria pienezza, profondità, grassezza. Nel complesso tuttavia in qualche misura più monotematico rispetto al fratello maggiore, meno sfaccettato, vario e complesso anche ai profumi. E così non verrà più riproposto in questo taglio. Ma, dopo appunto una sosta di 10 anni, l’etichetta Palazzi diventerà dalla vendemmia 2009 il Merlot in purezza dell’azienda.
E’ comunque dopo la ’97 che il Tenuta di Trinoro vede la sua progressiva crescita con la fondamentale intuizione di assecondare completamente le caratteristiche del territorio e arrivare al suo massimo equilibrio espressivo nel microclima assai fresco e continentale di questo territorio. Si comincia cioè a ritardare sempre di più la vendemmia, certo rischiando forte, arrivando comunque ogni volta agli ultimi giorni di ottobre, fino, quando è il caso (e accadrà davvero numerose volte), alla prima decade di novembre per ottenere grappoli meravigliosamente maturi.
Bassa poi oltre ogni modo la resa, per una produzione che oscillerà tra i 15 ed i 18 hl ad ettaro, come nessuno ha mai tentato prima in Italia. Ma quello che si ricerca è il valore completo, assoluto, esaustivo del frutto. Occorre partire da qui, da quanto elaborano di superiore e complesso le piante in questo ultimo sprint temporale, nel fresco del primo autunno, per comprendere la fondamentale moltiplicazione di profumi e sapori che avviene poi nelle uve. E dunque l’esemplare fittezza matura del suo vino, la sua originalità totale, cui l’estremo sacrificio di vigna dona alla fine un segno e valore inconfondibile. Si mettono così a fuoco le caratteristiche di un rosso originalissimo, che ricava dalla notevole altitudine, dalla freschezza del clima in questa luce secca, accecante e dalla continua, forte escursione termica notturna, un’eleganza deliziosa ai profumi, una nordicità di purissimo respiro balsamico che innalza le note dolci e incontaminate di frutti di bosco in un infinito senso di velluto, di creme, in un’armonia superba di essenze fresche e mature dal finale catramato.
Si avverte la potente fisicità del vino, il suo volume, l’energia, la consistenza corporale e assieme, in un equilibrio altissimo, la preziosità della trama, il suo vibrato che si esprime in una palatalità vasta, una morbidezza sontuosa e mossa, con la godibilità estrema dei grandi sapori mediterranei. Quella che appare è insomma un’architettura opulenta, un altare barocco dagli intarsi chiaroscurati eppure con una loro vivezza energica, una forza interiore solidissima per un rosso grandioso, teso sempre ad un estremo piacere espressivo, ad una felicità viva, generosa di toni. Ed in questo senso vino profondamente e sinceramente italiano.
Solo per aggiungere qualche dato analitico, il Tenuta di Trinoro dalla vendemmia ’99 rivela un estratto secco oscillante tra i 34 ed i 37, con un valore alcolico tra i 14,5 ed i 15 gradi. Ma ognuno di questi valori è destinato a salire. E nelle grandi estati calde successive il Tenuta arriverà e supererà anche ai 16 gradi di alcol.
Inoltre questi vini, nella loro sintesi tra nordicità e solarità, hanno finalmente acquisito una riconoscibilità completa. Assaggiandoli, si avverte questo filo conduttore, il timbro di Trinoro che li attraversa in una sfaccettata complessità di sfumature, con i suoi elementi di unicità dati dal terroir, dalla sua luce mediterranea e insieme dallo stile, dall’idea estetica, dal gusto del suo creatore. Che sono anche il segno di una padronanza conoscitiva ormai, dalla conduzione di vigna alle fermentazioni ed estrazioni in cantina, ai tempi di legno (che tendono anche a diminuire nelle ultime annate), che fa sì che non si disperda più nulla di tutto il patrimonio contenuto nelle uve, della bellezza e della fragranza dei loro più profondi sapori e profumi.
La produzione del Tenuta di Trinoro è ormai attestata sulle 8.000 bottiglie, che rappresenta meno di un decimo del vino prodotto in azienda. Una composizione estetica che Andrea Franchetti abbozza nei primi mesi successivi alla vendemmia con una drastica selezione delle barrique e delle minipartite a più alta complessità e spessore. E poi via via completa in un uvaggio che vede variazioni ogni anno, in quello che è anche il fascino della formula bordolese. Ma che inizia ad avere dei riscontri anche sul campo, nell’individuazione delle miniaree più costanti a dare le partite per il Tenuta di Trinoro. E comunque proprio la medesima severità di vigna è alla base di un secondo vino magnifico, quel Le Cupole già accennato, con annate davvero memorabili, ad un rapporto qualità-prezzo davvero favorevolissimo.
Colpisce tuttavia come questo lembo selvaggio della Val d’Orcia, prima intentato ai vini importanti solo perché inadatto a massicce produzioni di quantità, possa esprimere oggi, nel giro in fondo di solo pochi anni, qualcosa di tanto originale e inimitabile da rivaleggiare proprio per questo con i più grandi uvaggi bordolesi del mondo. In un risultato che squarcia anche un velo sulle cattive abitudini di casa nostra e lascia pensare a quante altre situazioni e suoli adatti a vini unici esistano nella penisola, agli infiniti valori ancora inespressi perché non ricercati, né indagati, nelle prevalenti incertezze dell’Italia odierna, nel suo ristagno senza slanci, navigando pigramente a vista in un pressapochismo anche culturale e in piccole, modeste paure di paese marginale. Quando invece esistono nel nostro paese soluzioni ad un passo, attorno e dentro di noi a ribaltare tutto questo, con risultati che possono diventare nel tempo imperativi ed assoluti. Niente può essere facile, ma abbiamo un lascito ed una storia che ci dovrebbe obbligare a questi tentativi. Vini semplicemente corretti e ben fatti possono essere tentati e imitati ovunque. Il nostro futuro enologico, ma non solo, è nel proporre vini che vadano oltre l’ovvio e stupiscano.
(Nella sezione I Vini dell’Anno l’assaggio di tutte le etichette 2011 di Trinoro)
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