Individualità e coralità nei Barolo e Barbaresco Pio Cesare
di Luciano Di Lello
Come punto d’origine il ritrovamento di vecchie bottiglie di Barolo e Barbaresco Pio Cesare su due vendemmie che definire difficili è un vero eufemismo. Parliamo della 1991 e 1992. E confesso la scarsa curiosità ad aprirle, provata per un po’. Poi, come inaspettatamente accade, l’assaggio è stato folgorante per diverse ragioni.
Innanzi tutto mi trovavo davanti a vini sfericamente all’apice (e con una fermezza che si manterrà stabile per anni), solenni, maestosi, che andavano man mano sfoderando il loro ventaglio aromatico e la complessa, articolata ricchezza di sapori. Arrivare a questa dichiarata espressività non è mai facile su vini da Nebbiolo, in cui parliamo sempre di potenziale da esprimere, anni di bottiglia da svolgere, vette da scalare. Qui finalmente c’era un paesaggio aperto su un orizzonte gusto-olfattivo affascinante e succoso. La forza tannica si era via via smussata, lasciando tracimare creme e confetture intrise di dolci note catramate. Ma l’altro elemento a colpirmi era la fortissima riconoscibilità territoriale che questi due vini esprimevano. C’era il Barolo in tutte le sue stimmate, dove si coniugavano lunghe severità e polpe, mineralità, con una vastità solenne, generosa. E accanto il Barbaresco, appena più nervoso, puntuto e vivido, magnificamente gustoso e poliedrico. In un certo senso questi vini, che nascevano in un assemblaggio di vigne storiche tra Barolo, Serralunga, La Morra, Monforte nel primo caso e tra Treiso e San Rocco Seno d’Elvio per il Barbaresco, univano al meglio gli ingredienti dei territori fino a farli diventare una specie di romanzo corale popolatissimo di personaggi in tutti i suoi più diversi strati sociali. Da lì a ritroso ho avuto modo di assaggiare queste due etichette sulla vendemmia ’95, 2000, 2007 e poi ’13, ’15, ’16, ricavando ogni volta un’impressione molto forte ed esaustiva, a confermarmi quanto esse siano, nella più espressa e completa coralità di tutte le sottozone, un formidabile quadro dei due territori, ricchissimo di varianti e sfaccettature.
Ma veniamo ora alle etichette dei singoli cru, che sono ovviamente il successivo gradino di elezione, con un’avvertenza però. Il grande cru è come un individuo d’eccezione, un solista, un grande uomo di pensiero o di arte. Ma nella sua esasperata particolarità è poi anche completamente rappresentativo dell’intero territorio? Sì e no, a mio avviso. Nel senso che l’eccezionalità sublima il territorio, ne focalizza e innalza alcuni particolari caratteri ed elementi, fino a toccare un’universalità del grande vino come individuo e microcosmo a sé. E dunque inizio con Il Bricco, da una alta e storica vigna a Treiso, esposta a sud e sud-ovest, assaggiato sulla vendemmia ’93, ’98, 2010, 2015, 2016. E siamo davanti ad uno dei picchi più felici del Barbaresco. Il contenuto minerale e salino del terreno dona qui miriadi di sensazioni in uno straordinario unicum di succosità, sopra un’impalcatura comunque profonda e severa che è nel dna di queste uve. La combinazione di sapidità e dolcezza ne fanno un campione di penetratività, un palpitante microcosmo di confetture, catrami e spezie che concedono una bevibilità serena, luminosa, ricchissima di spazi.
Assai diverso poi l’Ornato, provato sulle annate ’93, ’99, 2009, 2015 e 2016. Classico Barolo dark di Serralunga e dunque quanto mai austero, chiuso, in cui la fittissima trama tannica sigilla a lungo l’espansività poderosa degli estratti. Vino dall’andamento lento e monumentale, che ha bisogno di decenni per concedersi.
Barolo totalmente diverso invece il Mosconi, da una vecchia vigna nell’areale di Monforte. Quello che qui prevale è una stupefacente soavità e grazia, fatta di tannini levigatissimi e serici che lasciano emergere aromi mentolati e petali di rose, una quintessenza di aericità ed eleganza che mi ha incantato e che sulla 2016 è uno dei miei vini assoluti dell’anno.
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