Come appunto dicevo, in quegli anni non andavo più a manifestazioni, con l’eccezione però di Benvenuto Brunello. Per tanti motivi. Contribuiva anche magari una certa vicinanza di Montalcino a Roma, che non mi obbligava a lunghe ore di guida, ma soprattutto era il grande affetto verso questo territorio (c’era stato un momento in cui avevo anche pensato assieme a mia moglie di prendervi casa) e per l’ammirazione ed il piacere sconfinato che provavo per il Brunello, vino che poi avevo visto davvero crescere in qualità e numero di produttori (nel mio primo, lontano viaggio erano appena una decina) durante tutti quegli anni.
Nell’assenza di altre mete, Benvenuto Brunello (sarebbe stato spostato poi man mano da gennaio fino alla seconda metà di febbraio) diventava così, in una mia vita fortemente scandita, il centro direzionale dell’inverno, una sosta e una trasferta dal lavoro quotidiano. Il venerdì mattina di una stabilita settimana di febbraio avrei così potuto assaggiare tutta la nuova formazione di Brunello di Montalcino, tutte le novità, le new entry, in una giornata faticosa, forse estenuante ad un certo punto, che metteva a dura prova la concentrazione e anche la motilità del palato, quando si superavano i 100-150 assaggi.
Ma c’era un altro appuntamento che faceva da polo e da premessa a tutto questo ed era la serata del giorno precedente, da trascorrere a Poggio di Sotto, come ho appunto raccontato, ad assaggiare tutti i vini dalle botti e poi le novità in bottiglia da pochi mesi.
Quel viaggio così atteso andava dunque preparato con cura. Io lo aspettavo da settimane. Con Piero programmavo anche il menù, che doveva essere leggero, sobrio (ma fino ad un certo punto, perché doveva fare anche da base a numerosi assaggi) ed è diventato poi fisso, guai a cambiarlo, perché mi sembrava perfetto: spaghetti al pomodoro (ma Piero l’avrebbe anticipato con dei crostini di salsiccia, che mi lasciavano perplesso sul piano salutistico, che avrei però ogni volta divorato con piacere) e fiorentina di Chianina alla brace.
Immancabile la mia telefonata di qualche giorno prima “La fiorentina? Ordinata?”.
“E certo” rispondeva Piero. Riprendevo poi con un “Allora cena alle sette, come noi anglosassoni”, riferendomi ai primi lontani anni di lavoro che Piero mi aveva raccontato di avere svolto a Londra e ai mesi che vi avevo trascorso io subito dopo la licenza liceale, anche questi ormai lontanissimi nel tempo, ad innamorarmi di tenere fanciulle inglesi, alcune però anche molto perfide, ma insomma …
Il viaggio in macchina da Roma era così un soffio di piacere, che vivevo pieno di aspettative. Quello che vorrei dire è che assaggiare grandi vini è una cosa molto bella e lieta, una grande felicità, una dilatazione d’orizzonte e personalmente vi ho bandito ogni forzatura intellettuale e fanatismo da iniziati. Credo di aver vissuto questo mestiere con naturalezza e con una gioia infinita, consapevole e anche grato di avere avuto questo privilegio.
Ogni volta il mio stato d’animo in quel viaggio era dunque di sentirmi felice e fortunato, anche impaziente, come di poter vedere in anteprima una grande mostra, ammirare da vicino tele importanti, magari qualche capolavoro, poterne studiare con comodo i tratti, le sfumature, considerare poi il tutto: l’anno, le stagioni, Montalcino, le diverse etichette, la naturalezza che il vino deve possedere, anche e nonostante sia frutto di un accurato lavoro dell’uomo.
Come per le opere d’arte, credo che il sublime si raggiunga quando la sapienza e la tecnica dell’uomo (che pure c’è e deve esserci) non si riesca ad avvertirla ed appaia anzi come annullata e avvolta dalla naturale bellezza, compatta, assoluta e serena dell’opera.
Cogliere il grande vino, scoprirlo, penso sia un lungo colpo al cuore. Ma in più il vino è anche qualcosa di fisico, che assaggi, poi gusti, assapori lentamente e allora senti che ti entra nel corpo, che ti nutre e ti cambia, ti modifica nei pensieri, nello stato d’animo.
Così viaggiavo verso Montalcino carico di queste attese. Arrivavo nel pomeriggio, il tempo appena di lasciare in albergo il bagaglio. E alle cinque, in pieno tramonto, ero a Poggio di Sotto.
Anche se quello era nei fatti un lavoro e io avevo sempre con me il taccuino degli appunti, con le note di tutte le impressioni d’assaggio, vivevo quella serata come una festa e una vacanza dalle preoccupazioni, gli impicci, i problemi di lavoro che continuamente si vivono. Poggio di Sotto era insomma una specie di momentanea cura dagli affanni, i profumi dei suoi vini, quei sapori che avvertivo diventavano una terapia a star bene, a dimenticare per un po’ il malessere, i problemi.
Nel frattempo, con gli anni che passavano, la fortuna di questo Brunello era intanto cresciuta enormemente, come era giusto e doveroso che fosse.
Con Piero si ironizzava così a volte, tra un assaggio e l’altro, su qualche giudice che aveva mutato improvvisamente rotta e ora dava valutazioni entusiastiche del suo Brunello, sulle continue richieste che arrivavano in azienda di visite, interviste, anche dall’estero. Tutto questo lo rendeva sicuramente soddisfatto e rilassato, un legittimo, meritato premio per quegli anni di lavoro e di investimento, anche per aver saputo tenere la barra ferma sulla difesa della tradizione, la fiducia assoluta nel Sangiovese. Ma per Piero io rimanevo sempre “l’ultimo dei Mohicani”, il giornalista e amico che provava ogni volta a convincerlo ad imbottigliare prima (senza ormai più sperarci) e a cui lui resisteva serafico e paziente, pur non essendolo affatto nell’indole.
Era dunque un rituale che non ammetteva modifiche, perché c’era lo spazio dei vini, che in ogni vendemmia erano comunque diversi, a rinnovare e a modificare l’emozione, a rassicurare con la loro sontuosa morbidezza, carica di frutti maturi, di minerali, di spezie rare, di più lontane sfumature fumé, che a volte anticipavano i primi toni rabbiosi e grassi di goudron.
Alla fine della degustazione in cantina portavo ogni volta con me un calice carico, pieno (mi doveva durare poi per tutta la cena) dell’ultimo vino assaggiato, il più prossimo all’imbottigliamento (quasi sempre, quando veniva prodotta, era la futura Riserva di Brunello). E si saliva allora in casa, dove l’avrei confrontato con i vini già in bottiglia.
E’ incancellabile il ricordo del casale in pietra, la sua scala esterna, l’aria gelida dell’inverno. E il tepore poi dentro la casa, le donne al lavoro in cucina, il tavolo apparecchiato, i saluti, quell’aria di famiglia, il camino acceso e i bei bronzi ai suoi lati.
Ero nel luogo di uno dei più grandi vini del mondo e tutto avveniva con una familiarità totale. Aprivo le bottiglie sul tavolo (mi è sempre piaciuto fare da me queste operazioni, controllare il tappo, avvinare con calma e precisione i bicchieri) e davo così il via a questa sarabanda di impressioni, con Piero che si teneva discretamente distante su una poltrona. Mentre io prendevo intanto appunti, a cominciare dal suo Rosso di Montalcino, più buono, articolato e complesso di tantissimi Brunelli altrui, poi l’annata da poco imbottigliata di Brunello e, quando prodotta, la Riserva, infine il Brunello dell’annata precedente.
Era tutto molto sereno. Dalla vetrata della terrazza arrivavano i bagliori della legna che ardeva sotto la griglia e doveva diventare brace, più in basso luccicavano i contorni illuminati di Castelnuovo, che in quel buio pareva un presepe.
Era tutto eguale all’anno precedente, eppure lo vivevo ogni volta come nuovo e bellissimo, con il tempo a sembrare vivo e nello stesso tempo immoto, sospeso.
Solo una volta avevo provato a spezzare questo incantesimo che mi sembrava celeste, per la contemporaneità quella sera di un Everton-Roma, che declinava da sempre la mia cultura della sconfitta e della terribile precarietà delle umane cose.
Mi era capitato di leggere uno scritto di Kafka anni prima che parlava del vincitore come di un uomo verso cui provare solo molta angoscia e pena. Mi aveva molto colpito e incuriosito questa idea. Ero rimasto su a pensarci, senza però ottenere poi un grammo di conforto e speranza.
Comunque, nel pieno di quella cena, chiesi di aprire il televisore. E mi trovai immerso da capo nella quotidianità ripetuta di mestizie e disillusioni della più miserevole commedia umana.
Davanti a quella partita che non schiodava, andavo disperdendo quella bolla di serena, incosciente beatitudine accumulata nella serata. Mi incarognivo davanti ad eventi che un’ostile Dea Bendata distillava sempre e perfidamente in negativo verso una sua prole negletta. E, alla fine, dopo aver spento il televisore con un senso raccapricciante di vuoto, mi accorgevo che Piero intanto, l’uomo del Brunello, refrattario a queste banali angosce umane, dormiva il profondo sonno del giusto sulla poltrona accanto.
Però in questo senso ho anche un altro ricordo invece assai forte e bello. Una telefonata di Piero il 17 giugno 2001, una domenica mattina, che, di passaggio a Roma, mi aveva lasciato 2 bottiglie di Brunello Riserva ’95, non ancora etichettate, nella portineria di un albergo a Piazza Barberini.
Io ero in una sorta di isolato ritiro spirituale a scacciare dalla mente ogni tipo di fantasmi, incognite e ostili presagi. Nel pomeriggio, se si fosse vinta una partita, sarebbe stato … Beh, la parola e l’entità stessa mi apparivano totalmente lontane e nello stesso tempo impronunciabili, forse anche incomprensibili, legate comunque ad un evento tanto inconsueto, misterioso e inarrivabile nella mia città da poter essere paragonato non tanto alla discesa di un Armstrong sulla Luna, quanto a quella più complicata e difficile di un Redentore che, impensabilmente e improvvisamente, dal vivo e in diretta, ci rassicurava in modo definitivo su una nostra sicura vita eterna.
Quella Riserva ’95 l’avevo sentita poi sin dalla prima visita a Poggio di Sotto, era il grandissimo vino che avevo visto crescere in tutti quegli anni. E la telefonata di Piero mi appariva così curiosamente simbolica e benaugurante. L’idea poi che quelle bottiglie si potessero perdere nel marasma delle portinerie alberghiere mi sembrava una disgrazia del tutto inaccettabile.
Presi dunque la metropolitana. Attraversai una città, che pareva quella mattina silenziosa e come sospesa nell’aria e nel respiro. Giunto all’albergo poi, dovetti attendere un po’ che le bottiglie saltassero fuori. E al ritorno me le tenevo sottobraccio, strette come un amuleto sacro. Era il portafortuna e il viatico di uno dei nostri più grandi vini e sentivo che sarebbe stato onorato e rispettato quel pomeriggio anche dalla famosa Dea Bendata.
Il vino è forse l’unica creazione dell’uomo che abbia il potere di esorcizzare il tempo e farci dimenticare ogni angoscia per il suo trascorrere continuo.
Infinite volte ci auguriamo che i mesi e gli anni corrano addirittura più in fretta, quando un vino che assaggiamo ci appare ancora troppo acerbo e crudo, mentre noi lo vorremmo già al suo meglio e dunque molto più aperto, espresso, ampio, voluttuoso. Immaginiamo spesso poi cosa potrà essere quel grande rosso in una vendemmia migliore, con piante più mature. Concepiamo così quello che sarà il futuro, ne dilatiamo il passo, quasi lo attiviamo, lo sognamo, ce lo auguriamo vicino e prossimo.
Anche il produttore immagina infinite volte che arrivi al più presto una nuova vendemmia, per sperimentare idee, vedere che risultati potrà dare quella nuova vigna, evitare poi quell’errore compiuto nella raccolta precedente, andare così oltre e poter ancora concepire, tentare.
Nel vino si scorgono gli anni a venire sempre sereni e gioiosamente carichi di aspettative. Eppure contemporaneamente il tempo ci corrode, ci consuma in modo inesorabile e non si può evitare poi che tutto il nostro lavoro abbia un suo termine.
Piero Palmucci aveva cominciato tardi la sua esperienza di viticoltore. Poggio di Sotto lo aveva acquistato nell’89, dopo un anno di meticolose esplorazioni alla ricerca del sito migliore, con la liquidazione ottenuta dopo una vita di lavoro e una carriera manageriale in Svezia.
Produrre Brunello dilata poi tutti i tempi in modo ancora più vasto, attendere così per anni che la vigna cresca, che i frutti siano completamente soddisfacenti, le molte altre stagioni di legno, che, come ho raccontato, Piero non lesinava di certo e l’affinamento in bottiglia infine, che doveva essere anche questo necessariamente assai lungo.
La prima annata di Brunello Poggio di Sotto è stata così posta in commercio a quasi dieci anni dal suo ritorno in Italia.
Dovevo dunque sapere che l’arco di Piero come viticoltore non poteva essere eterno. Eppure quasi non riuscivo a pensarci, perché in qualche modo sentivo che il Brunello Poggio di Sotto e tutta la sua avventura, era legata al mio ultimo periodo di giornalista del vino, con le stanchezze, le insoddisfazioni che ognuno si porta dentro.
Quei rituali, quegli assaggi, quei viaggi, quell’amicizia io non avrei potuto, né voluto ripeterla in nessun altro luogo. Non ne avrei avuto più il tempo, né appunto il desiderio. Dovevo cambiare anche io a quel punto, fare altro, pensare a scrivere altro, magari mettermi definitivamente al lavoro sul romanzo che stavo considerando da più di un decennio.
Dei segnali, che tutto questo mutamento non fosse lontano, c’erano stati di sicuro. L’incidente automobilistico che Piero aveva avuto e le lunghe, complesse operazioni per recuperare al meglio l’uso del braccio lo avevano in qualche modo fiaccato, anche se lui riusciva a nascondere tutto con fierezza leonina.
Il declino fisico, l’età avanzata di Giulio Gambelli poi, il maestro, il buon mentore che aveva accompagnato tutto il percorso di Poggio di Sotto, certamente preoccupavano Piero e ogni tanto me l’accennava, scuotendo la testa.
Probabilmente infine, ma di questo, per il pudore di un’amicizia tra anziani gentiluomini, non se n’è mai parlato apertamente, anche la mancanza di una continuità familiare a prendere in mano l’azienda e poterla mantenere a quel livello elevatissimo di qualità, lasciava facilmente immaginare come non ci fossero altre alternative, se non quella di una vendita. Che prima o poi sarebbe avvenuta.
Nelle mie ultime visite così quasi esorcizzavo l’argomento. Se Piero accennava ad una sua certa stanchezza, io gli ponevo altre domande o provavo a cambiare discorso. Gli raccontavo di altri vini, altri territori. Io non potevo fare nulla, eppure cercavo di rinviare il tutto e che questo potesse avvenire in un’epoca lontanissima e remota.
Così quella telefonata di Piero mi è giunta come una mazzata. E’ stata la prima cosa che lui mi ha detto, con la voce un po’ fonda, un “Ho venduto” a bruciapelo, quasi per liberarsene subito.
Forse perché non la voglio ricordare, faccio anche fatica a collocare la telefonata in una data precisa, ma doveva essere tra maggio e giugno del 2011.
Io ero rimasto di stucco, scavalcato ormai dall’evento già accaduto e non più modificabile. Quella così non fu nemmeno una telefonata lunga. Mi sfuggì solo un “E’ finito un periodo”.
Lui mi riprese subito “Noo, non mi dire così, che mi rattristi”. E ho pensato in quel momento come invece le nostre telefonate di quegli anni erano state sempre molto piene di risate, di ironia, perché l’amicizia è una cosa lieta. Si è amici in fondo di una persona che ti sta bene, che stimi, con cui si ha voglia di parlare e raccontare.
Però i cicli, anche nel vino, terminano. Possono sì ricominciare in quelle stesse vigne, ma con persone ed uomini differenti, che daranno un loro apporto nuovo e comunque sempre inevitabilmente diverso.
Dovevo però a quel punto tornare un ultima volta a Poggio di Sotto. Non so, volevo rivedere, ricontrollare, fissare tutto definitivamente nella memoria, prima che qualcosa potesse sfuggirmi, ripetere un’altra volta quel rituale, ritrovare la sua suggestione e assieme il luogo, i sapori. Piero sarebbe rimasto ancora in quel casale fino ai primissimi di settembre.
Così sono arrivato a Poggio di Sotto che era la fine di agosto.
Ma inevitabilmente vivevo tutta quella giornata in modo strano. Medesimo era l’andamento, il suo cerimoniale, il colore dei luoghi. L’intero spazio però sembrava prendere un’altra dimensione, come se qualcosa di incombente lo delimitasse, gli togliesse quella vibrazione di futuro che c’è sempre nel vino. Mancava il senso di gioco e di sfida che c’era nell’assaggiare un vino grande e dire “Bé, però è da imbottigliare”. Non ne avevo davvero lo spirito quel giorno, ma soprattutto ero consapevole che non ci sarebbe stato più il piacere rassicurante di poter ritrovare quel vino tra qualche mese o tra un anno, in botte oppure in bottiglia, ma comunque lì, da riassaggiare e commentare da capo, discutere, verificare quanto e come fosse cresciuto.
Cercavo però in tutti i modi di essere sereno e non volevo che gli assaggi e il pranzo successivo avessero niente di triste. Anche se c’era questo masso ad incombere, questa “ultima volta” che si andava svolgendo quel giorno, distillandosi e sciogliendosi lentamente, ma appunto solo per un’ultima volta, con i suoi determinati personaggi e vini. Poggio di Sotto avrebbe certamente continuato la sua storia, sarebbe stata piena di visitatori e fortune, ma i protagonisti, gli attori e i vini sarebbero stati da allora in poi per sempre diversi.
Ricordo così tutti gli assaggi dalle botti, i tesori che andavano maturando, la 2010, 2009, 2008, 2007. Poi a pranzo il Brunello 2006, il 2006 Riserva, il 2005 Riserva.
C’erano tutti i contorni dell’opera. Era come se Piero volesse abbandonare il campo con dei capolavori che ne ribadissero lo stile completo, il pensiero, l’impronta e la loro durissima disciplina. Ma insieme, intorno e sopra a questo, alla forza, all’energia, alla bellezza e all’eleganza incantatoria che quei rossi possedevano, aleggiava il gusto gentile di Giulio Gambelli, il sorriso mite del vecchio Maestro Assaggiatore, che aveva domato in creme e dolcezze il Sangiovese.
Piero ci raccontava appunto come lui fosse ammalato in quei giorni, ma ci mandava comunque i suoi cari saluti. E solo pochi mesi più tardi Giulio avrebbe poi abbandonato tutto il mondo di colpo, nei primi giorni del gennaio successivo.
Mi rimane ancora assai forte la memoria dei vini, ma onestamente, dei tanti miei viaggi a Poggio di Sotto, questo lo ricordo meno nelle dinamiche, nello svolgimento, nei dialoghi. Avevo con me anche mia moglie quel giorno, un po’ per poter bere qualche sorso in più, lasciarmi andare con maggiore tranquillità a quel piacere, ma soprattutto per il desiderio di una compagnia nelle ore di viaggio, senza poter stare poi a considerare, a rimuginare.
Inevitabilmente era un pranzo di addio alle persone ed ai luoghi, pieno così di pensieri. Ma, davanti a quella sequela di calici sulla tavola, saliva anche l’aspetto gioioso del vino, le considerazioni sul lavoro che avevano compiuto i suoi protagonisti, creando vigne là dove c’erano una volta solo sterpi, facendo così nascere dei rossi meravigliosi, che erano opere vive e ora viaggiavano nel mondo.
Immaginavo, mentre si conversava a tavola, coppie che in qualche ristorante di New York o di Francoforte, di Osaka avevano festeggiato in quegli anni il loro incontro bevendo il Brunello di Poggio di Sotto. Avevano probabilmente guardato l’etichetta, leggendo il luogo in cui il vino era nato. E il profumo, il suo sapore aveva rallegrato la serata e rinsaldato poi l’amicizia, l’affetto. Perché le opere positive dell’uomo sono indissolubilmente legate a chi le ha create e alla terra che le genera, ma fanno poi del bene ad altri uomini. Era questo che mi veniva in mente, come queste opere sappiano essere universali e comunicare sostanza, alimentare così idee, sentimenti e desideri, anche in luoghi e dentro persone lontanissime. E’ questa la bellezza e l’incanto del loro ruolo, appunto quel loro essere positive e trasmettere consolazioni e gioie, diffondere benessere agli altri, anche se non possono mai essere eternamente durature. Basta comunque esserne consapevoli e godersi la felicità e il momento di quanto ci viene dato. Perché c’è un corso e un ciclo nella nostra esistenza.
Brunello Poggio di Sotto. Ricordavo di averlo fatto bere un giorno a mio padre in un pranzo, una ricorrenza, una festa in famiglia. Probabilmente era proprio la Riserva ’95 e lui mi aveva detto, sorridendo “Questo non è un vino, è una crema di vino”. E mi aveva poi ringraziato per quella scelta.
Me n’andavo così sul piacere della memoria, sullo stare bene, poi i conversari del dopo pranzo, la compagnia, senza più pensieri cupi, pesanti. E il saluto finale di quel giorno non lo ricordo bene, ma sarà stato certamente sobrio e composto, come da anziani amici che dicono “Ma sì, certo, ci vediamo presto”, con un ultimo cenno dal finestrino della macchina, sapendo però che le cose poi non andranno per niente così.
Il paesaggio si è allora declinato lentamente, dalla sagoma bianca di Sant’Antimo immersa nel colore della campagna, al rettilineo sovrastato di vigneti, alle curve più a gomito che cominciano poi a salire verso Montalcino.
Andavo recuperando serenità in mezzo a quel turbinio di vigne, che non esistevano nel mio primo viaggio del 1974. Laicamente pensavo al buon lavoro dell’uomo, ai decenni di fatica nel trasformare un panorama intenso e selvatico in un’architettura agricola piena di linee verdi di filari, di fattiva presenza umana, che si mescola alla natura e ricopre la terra di colori e di frutti. A quante cose belle erano state create lungo tutti quei decenni, alla qualità positiva che è la cosa che più resta dell’uomo.
Fare vini buoni, assaggiarli in compagnia, poi parlare, spiegarsi, così come scrivere, creare buoni racconti per gli altri. Non mi sembrava in quel momento che ci fosse niente di più bello nel genere umano.
Mi tornava in mente Piero Palmucci, che più di venti anni prima piantava le sue prime viti e non riuscivo proprio a immaginarlo lontano e separato da Poggio di Sotto, dove da quel giorno non sarei più tornato.
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