Cupano

Brunello di Montalcino Riserva 2008  92-93

Brunello di Montalcino 2009   92

Ombrone 2010  92

Ombrone  2011  91-92

I vini di Cupano sono stati la scoperta forte di questi ultimi anni, a partire dal 2008. Per la verità avevo sentito questo Brunello la prima volta nell’anno precedente con la vendemmia 2002. Il vino mi aveva subito colpito, anche se nel lotto macilento di un’annata complessivamente orribile a Montalcino. Vigliaccamente non lo recensii. Era un vino molto elegante, ma anche di vigne giovani. Spiccava comunque tra gli altri. L’assaggio però era stato rapido. E non mi era stato poi possibile visitare l’azienda, non sapevo nulla delle vigne, dei produttori, di quello che andava crescendo in cantina. Quell’annata pessima pesava inoltre davvero forte e volevo avere una riprova su una vendemmia migliore.

Così al Benvenuto Brunello nell’anno del Signore 2008, mi ritorna sotto il naso il Brunello Cupano 2003. E non mi ero sbagliato. Ero stato sì un vile, ma il vino aveva tutte le movenze del fuoriclasse.

Mi ero nel frattempo informato su dove fosse l’azienda, la vigna. E’ sempre molto curioso e divertente chiedere ad un produttore di vino di altri, nuovi produttori del territorio. Restano sulla difensiva, sembrano omertosi, non vogliono tessere le lodi di un concorrente (giammai), ma neanche parlarne male in modo esplicito. E nella realtà ho verificato in tutti questi anni come i produttori di fatto non si frequentino, se non (e casomai) in microgruppi. Non sanno dunque molto l’uno dell’altro (se non in occasionali pettegolezzi) e soprattutto non assaggiano vini altrui.

Soltanto i più colti e preparati hanno l’ardire di acquistare il vino o i vini più premiati del proprio territorio e mettersi poi seduti a degustarli con attenzione, sentendo contemporaneamente anche il loro. Dovrebbe essere la norma questa e, credo, anche un grosso fattore di crescita. Ma non accade (ovviamente con qualche nobile eccezione) e questo vale per tutta l’Italia.

Alla mia richiesta di notizie così, dopo un aggrottare di fronte carico di “Mah” e “Non so …” appariva a volte un “Ah sì, … è un francese” e finiva lì, non capendosi bene cosa significasse questa differenza di nazionalità. Oppure, nel caso più magnanimo “Sì carini, lui e la moglie, ma certi prezzi …”. E questa volta non so se con più invidia che altro.

Comunque i vini di Cupano sono stati, a mio avviso, un altro tratto di storia importante nella giovane vicenda del Brunello, distinguendosi con un timbro tutto loro e particolare, perché come sempre è il sito a dare un gusto, un sapore, una dimensione al vino che nasce. Ma poi occorre che ci sia un uomo che raccolga tutto questo, lo articoli, lo definisca, lo plasmi attraverso un concetto, un senso, una cultura. E quanto più profonda è questa, così meno effimero e casuale sarà il risultato. Perché sono davvero convinto che il grande vino, il vino assoluto possa nascere solo da una persona fortemente acculturata. E solo attraverso un lungo filo di interrogativi, dubbi, sottigliezze si arrivi poi ad un risultato vasto, complesso, carico e ricco di verità, di sfaccettature.

Lionel Cousin è dunque “il francese”, che crea e plasma praticamente da solo questi vini, un passato di direttore della fotografia in molti film del suo paese e della giovane cinematografia centro-africana, così come dell’ultimo film di Otar Iosseliani. Che, assieme alla moglie Ornella, nel ’96 acquista Cupano (ma conosceva Montalcino da vent’anni, quando veniva a trovare il pittore Yoran Cazac che qui aveva casa), un podere di 34 ettari attorno all’antico casale, su una balza, un panettoncino a 200 metri di altitudine che domina la discesa verso le anse dell’Ombrone, in un paesaggio da lì in poi infinito, dai colori in continua, stupefacente mutazione, fino alla fascia lontanissima del mare.

unnamedVersante ovest dunque, quello dei Brunelli più sapidi, su un terreno di argille e sabbie piene di ciottoli alluvionali, che il fiume sottostante ha trasportato per millenni.

Sono 7 gli ettari di filari, impiantati a partire dal ’98 da Carlo Ferrini, ad una fittezza di 6.250 piante ad ettaro. Le coltivazioni sono biologiche, ma da François Bouchet si è appresa anche una biodinamica semplice ed efficace. Si raccoglie meno di un chilo d’uva a pianta. In fermentazione utilizzo solo di lieviti da pied de cuve indigene, ed estrema attenzione poi alla qualità dei legni, in larga prevalenza piccoli.

Nella loro cantina termocondizionata, con file di barrique a più piani, ho fatto assieme a Lionel alcuni dei più grandiosi e sostanziosi assaggi degli ultimi anni (perché i vini di Cupano sono vini pieni, grassi, sontuosi, ma di materia luminosa), spaziando in tutte le vendemmie che lì si andavano ad elevare in piccoli legni borgognotti, a grana fine ed extra fine.

Si cominciava anche qui dall’ultima annata appena posta in barrique. Con i vini che hanno un loro sapore particolarissimo fin dalla nascita, perché la varia mineralità dei terreni conferisce un timbro, un gusto inconfondibile, che li fa apparire subito saporitissimi, sapidi e al tempo stesso dolci. La bassissima produzione a pianta, la concentrazione di sostanze nobili e gliceriche porta ad un tale connubio tra deliziosità e grassezza, generosità alcolica e di estratto, che non ci si stanca di assaggiare, di gustare, assaporare.

In quei momenti mi sembrava quasi un delitto non poterlo bere del tutto, finire il calice. Istintivamente mi scappava spesso un deglutire furtivo di quella bevanda meravigliosa, osservando poi l’apertura della successiva barrique, i nuovi sapori che stavano per arrivare.

Accadeva tutto in silenzio, ritualmente. Il tappo in silicone che opponeva una certa resistenza prima di aprirsi, il ladro di vetro che scendeva nella botticella e veniva avvinato un paio di volte, infine risaliva carico del suo colore bellissimo e scuro, che poi scendeva nei calici. E il vino scorreva allora sul mio palato, si ossigenava, liberava aromi e sapori e dava idee, gusti, sensazioni.

Dopo aver assaporato, parlavo, raccontavo le impressioni, quelle che mi sembravano le differenze con il vino precedente. Dovevo tenere il filo e la concentrazione. Lionel ascoltava, commentava anche lui, pensava, considerava, sempre attento, curioso, rivelando tutto il suo carattere, l’educazione di persona colta e gentile, che vuole andare oltre, migliorare in ogni vendemmia, capire di più del vino, cogliere qualcosa magari anche nel pensiero degli altri.

Con i calici che lasciavano delicatamente roteare quel futuro Brunello, si parlava di profumi, di profondità, ricchezza. E in fondo in quei momenti ognuno cercava di articolare il proprio concetto di bellezza, di armonia, la propria idea di forma, di vino ideale, pensando a come questa barrique potesse legarsi e crescere con le precedenti.

Ogni volta l’assaggio di queste piccole sezioni di grandi vini futuri era bellissimo ed emozionante, perché appariva come l’anticipo di qualcosa che doveva ancora essere, una bellezza che doveva crearsi e durare poi per anni. Era il risultato di un lavoro ormai raccolto, in cui la natura e le stagioni si erano già espresse. Ed era tutto nelle mani del produttore ormai, un frutto ricchissimo, prezioso, in movimento ed in divenire, su cui bisognava non fare errori.

Nello stesso tempo mi veniva in quei momenti da considerare come un uomo con il mito della Borgogna e che considera Henry Jayer proprio riferimento e mentore stesse dando qui un interpretazione magistrale del Sangiovese. E come tutta questa lunga trasmigrazione, con il suo scambio di idee e di opere, con l’arrivo di sensibilità tanto diverse dal mondo potesse essere la grandezza del Brunello attuale e a venire. Questo melting-pot di differenti culture giunte a Montalcino per vivere, lavorare, ma davvero felici di farlo, di esserci, e ognuno da un’esperienza e da una vita diversa, in questo luogo (non a caso bellissimo e anche l’unico in cui il Sangiovese sappia e possa essere immenso), andava via via creando un esemplare bastione della cultura dell’Occidente, formicolante di interpretazioni sulla bevanda più nobile della sua storia millenaria.

A Cupano ho testata assaggi di cantina fino alla vendemmia 2010, ormai già in piena maturazione nelle barrique (adesso viaggio poco, l’ho detto), e sempre esaltanti, vividi di un’interpretazione più dinamica e moderna del Brunello. Che si concludevano con un pranzo o una cena, in cui poi si assaggiavano vecchie bottiglie. E le sensazioni allora crescevano, spaziavano, così come verificavo ogni volta come questo vino avesse bisogno di un lungo tempo di vetro per la formazione e l’arricchimento dei suoi profumi.

Un Brunello Cupano, aperto a pochi mesi dall’imbottigliamento, presenta in genere una bocca appassionata, deliziosa, ricchissima di sapori e di dolcezza (nella mineralità di questo sito il Sangiovese esprime dei sapori di una bontà strepitosa), assieme ad un naso ancora reticente. Probabilmente è un vino di una materia e saporosità dunque talmente traboccante da creare un gap iniziale rispetto ai profumi che devono invece ancora unirsi, fondersi e crescere. Il mio consiglio allora, trattandosi di un vino particolarmente importante, è quello di dargli almeno un paio di anni di bottiglia, prima di aprirlo. Si tratta di un autentico Brunello da collezione, che crescerà esponenzialmente nei profumi, senza però perdere nulla della saporosità felice che lo contraddistingue e lo rende unico.

Venendo così al Brunello 2009, che ho davvero visto crescere, e che è ormai in bottiglia da più di un anno, confermo come si tratti per Cupano di una grande annata, con una bocca che trovo superba, grassa, voluminosa e con una inconfondibilità data dalla sua particolare ricchezza di sapori e dalla dolcezza straordinaria del suo patrimonio minerale. Le piante, che hanno ormai più di dieci anni, scavano nel profondo del terreno e trovano un prezioso patrimonio di pietre e ciottoli, assai composito proprio perche trasportato dall’Ombrone in millenni e millenni di passaggi, piene, alluvioni. Il sole poi a questa altitudine è generoso, il vino così è grasso, alcolico, ma con un magnifico patrimonio acido e appunto minerale, che si dilata nella bocca con tutta una morbida sequenza di frutti rossi e confetture su vaniglie, spezie, minerali e ceneri dolcissime. Il naso è assai carico di frutto, ma è ancora trattenuto, deve meglio comporsi e gli darei così 1-2 anni ancora di sicuro miglioramento.

La Riserva 2008 è invece già più composta, leggibile. Ed il naso rivela il pieno carattere di Cupano, i suoi profumi catramati, profondi, virili, che dai frutti rossi si aprono man mano alle vaniglie, al caffè torrefatto, al tartufo su un solenne letto di goudron. Certo è un vino giovanissimo, sicuramente un po’ crudo, anche tannico e aggressivo e dunque con ampi margini di crescita. Ma ancora una volta è la bocca a colpire, piena com’è di crema (perché questo Brunello è un vino tattile per eccellenza) e di lunga sequenza di frutti sontuosi a crescere e a riempire di nobile dolcezza il filo dei tannini.

Ma a Cupano c’è un altro grande vino, piccolo solo nel numero di bottiglie prodotte, che è l’Ombrone. Nato inizialmente come taglio più o meno paritario tra il Sangiovese e le uve bordolesi, è andato via via crescendo nella sua percentuale di Cabernet Sauvignon e Merlot, fino a rappresentarne la totalità completa nella grande vendemmia 2010 e solo con una piccola percentuale (il 15%) di Sangiovese nella attuale 2011.

Parliamo in sostanza di un uvaggio bordolese strabordante, non per timidi, e con la piena la solarità di Montalcino, ma direi ancor di più con il terroir di Cupano a distinguerlo tra tutti e a dargli così una spazialità ed una dimensione spettacolare. In particolare la vendemmia 2010, con il suo perfetto andamento stagionale, ne esalta la monumentalità, lo spessore in cui i frutti di bosco, dolcissimi e maturi, appaiono deliziosamente inchiostrati, a fornirne un quadro fortemente chiaroscurato (più che originale, unico) di gran vino profondo, serio, i cui frutti evocano uno sfondo olfattivo di carni e creme. Torno a dire, gran vino tattile, fisico, sensuale e, a mio parere, miglior uvaggio bordolese di Montalcino, che se la batte benissimo con tutti gli altri della Penisola.

L’Ombrone 2011, ora in commercio, appare nerastro e impenetrabile al colore. Ancora assai crudo e giovane (e sarebbe davvero raccomandabile una saggia scorta per sentirlo tra 2-3 anni), dimostra però già oggi la sua imponenza, il passo davvero mastodontico, la volumetria esuberante, la dolcezza dei suoi frutti di bosco che si complessizzano immersi in un goudron dichiarato, perentorio, con la generosità dell’alcol che è mitigata da lunghi tannini ancora aggressivi. E la sensazione di un nitore olfattivo superbo insieme ad una suprema soavità di polpa, che sfuma nella confettura cremosa e nel tostato.

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