Ho già accennato all’impressione che mi lasciò l’assaggio del Sassicaia ’68. Parliamo appunto di molto tempo fa. Era l’autunno del 1974. Ma le grandi emozioni hanno il potere di rimanerci dentro, come se tutti gli anni che ce ne separano non siano mai trascorsi. Noi restiamo incisi nella loro scena, assieme alle persone di quella serata, e sentiamo riapparire quel profumo, il suo incantevole aprirsi di aromi, che continuano a salire e variare, straordinariamente preziosi e ignoti fino ad un momento prima. Con lo stupore e l’improvvisa percezione di quali confini si possano valicare in un vino, quando si possiede un mondo aromatico tanto incantatorio e inedito. Qualcosa da raccontare dunque, da approfondire, da poterci dedicare anche una vita magari.
Solo per dare un’idea di quel tempo, diciamo che assaggiavo vini importanti già da qualche anno e che negli ultimi mesi c’era stata un’impennata di viaggi nei territori. Sostanzialmente comunque mi ero costruito a Sangiovese e Nebbiolo. Ed ero dentro quel meglio che la produzione italiana aveva offerto fino a quel momento. Che non era ancora granché però, occorre dirlo.
Ricordo come la prima sensazione nell’assaggio del Sassicaia sia stata quella di essere entrato nel colore e nel sonoro, quasi nei tempi precedenti avessi visto solo piccoli cortometraggi muti e in bianco e nero. Con l’effetto di capire che nel vino esistevano altre dimensioni e nuovi territori, con spazi grandissimi ancora da esplorare.
E non credo poi di essere stato il solo a provare questo. Non mi riferisco tanto ad un generico pubblico italiano, in quel tempo assai esiguo nel numero, quanto ai produttori e ai tecnici più attenti. Perché negli anni successivi il nostro vino rosso è profondamente mutato. Si può anzi dire che, in senso estetico, ha da lì cominciato davvero ad evolversi, ad arricchirsi e a correre. Avendo chiaro come non fosse una semplice, banale questione di Cabernet Sauvignon e Franc oppure di vitigni autoctoni, quanto di interpretazione del vino, di gusto e di visione. La nostra modernità è nata allora.
“Di fatto il Sassicaia era lontano anni-luce dai parametri cui eravamo abituati, da vini cioè molto evoluti nelle tradizionali grandi botti, a volte scarichi di colore, piuttosto acidi, con profumi assai maturi, a volte stanchi, spesso vecchi. Il Sassicaia appariva invece come un’esplosione di giovinezza concentrata, con profumi incantevoli di frutti rossi di bosco, più attorno, a corolla, una preziosa dolcezza di vaniglia e legni aromatici. Era di fatto una rivoluzione … Per la prima volta un vino importante appariva anche come qualcosa di radioso, di felice ed appunto di fresco e giovane, con in più un’eleganza, un senso della misura impressionante. Per la prima volta la giovinezza e la complessità si fondevano … Era l’approdo ad una nuova idea del vino, che avrebbe via via puntato, ed in modo sempre più consapevole, al raggiungimento di una freschezza importante e sontuosa, a profumi che sapessero di frutto ed in un’espressione sempre più concentrata e preziosa, coinvolgendo via via in questo lavoro anche i nostri vitigni e con risultati profondamente innovativi”.
E’ quello che ho scritto più di vent’anni fa nel mio, di fatto, unico libro sull’intero corpo dei vini italiani. Nel rileggerlo mi è sembrato di non poter aggiungere altro. E così, orrendamente, mi cito, risparmiando però tempo ed energia per tutti.
Volevo comunque allargare il discorso, perché mi sono reso conto via via negli anni come e quanto il vino importante fosse anche spazio, sensazione di vita e dunque storia e antropologia. Ci sono insomma avvenimenti, suoni, immagini, fatti, parole, e dunque profumi e sapori, che cambiano la storia e il nostro modo di essere, che restano indelebili dentro di noi e ti fanno capire che da quel momento in poi tutto sarà diverso.
E’ così negli uomini e nelle generazioni. Ed è facilmente rilevabile se partiamo da quegli eventi pubblici, che ci hanno colpito profondamente anche nel nostro privato.
Nei racconti di mio padre il giorno in cui seppe che era finita la guerra, mentre era in un campo di prigionia in Germania. Per la mia generazione l’improvvisa notizia dell’assassinio di John Kennedy, quando ero un ragazzo. Poi quella del rapimento Moro. O, più tardi, il crollo delle Torri Gemelle.
Ma esistono anche avvenimenti più lievi e lieti, che hanno comunque il potere di modificarti in qualcosa. Non potrò, ad esempio, mai dimenticare quella sera dell’autunno del 1963, quando in televisione, su un programma che si chiamava TV7, presentarono un reportage su un gruppo inglese del tutto sconosciuto in Italia, ma che iniziava a furoreggiare in Gran Bretagna. E per la prima volta, filmati in un concerto, vedevo e sentivo i Beatles nell’attacco di “Please please me”. Quel suo hook completamente nuovo di chitarra elettrica e armonica a salti ricorrenti di ottava sono per me il trascinante, indelebile ingresso nella modernità e nella giovinezza. Capivo che da lì in poi la musica ed il mio gusto sarebbero totalmente cambiati. Ma non era qualcosa che riguardava solo me, perché il giorno dopo a scuola (c’erano in fondo soltanto due canali televisivi) non si parlava d’altro. Ed era tutto un rincorrersi di “Ma li hai visti? Li hai sentiti?”.
Potrei andare avanti all’infinito. Voglio però tornare al nostro argomento e appunto a come ho vissuto il primo assaggio del Sassicaia.
Dopo aver sentito quei profumi, niente mi pareva restasse uguale. Si era aperto un varco e bisognava andare avanti in quella direzione. Io volevo progredire, volevo crescere. C’era inoltre un altro elemento che mi colpiva, perché in quel vino, anche in tutta la sua complessità e sfaccettata ricchezza (ma mai troppo ostentata, anzi con un senso della misura davvero mirabile, che il Sassicaia ha poi sempre mantenuto), io avvertivo e mi veniva addosso una fortissima sensazione di gioia, di vivezza, di radiosità. E questo sconvolgeva tutti i miei parametri, perché mi rendevo conto di aver bevuto fino a quel momento rossi italiani, per la stragrande maggioranza, sostanzialmente tristi, rigidi, monotoni, noiosi. Ora di colpo prendevo coscienza di non voler più sentire vini vecchi, acidi, ossidati e stantii. Perché esisteva una verità diversa, fatta di bellezza e profondità di frutto. Ed esisteva anche un suono felice nel grande vino, con un suo lungo filo armonico, pieno di collegamenti e riferimenti, che mi intrigava infinitamente e solo a tutto questo nuovo sentivo di voler appassionarmi e dedicare il mio tempo.
Il Sassicaia ho poi continuato a seguirlo. Quando il ’68 era ormai finito nelle enoteche di Roma, chiamai direttamente l’azienda e me ne feci spedire altre sei bottiglie, con l’ultimo stipendio preso.
Quando mi arrivarono, aprii il cartone con una lenta venerazione. E guardai le bottiglie, la loro elegante, raffinata etichetta. Le sfiorai, le sollevai. Mi accorsi solo allora che non avevano però la retroetichetta (che il Sassicaia ha portato fino all’annata ’81).
Rimasi per un attimo nel panico.
Chiamai l’azienda e mi spiegarono che quelle erano le ultimissime bottiglie rimaste, che in un primo tempo non pensavano affatto di mettere in commercio, perché erano in sostanza il lotto privato della famiglia Incisa. Visto poi il successo e l’insistenza di alcuni clienti, ne avevano a quel punto distribuite un centinaio.
Possedevo di fatto dei Gronchi rosa. Quando poi, qualche settimana dopo, stappai la prima bottiglia (e, lo confesso, con un minimo di apprensione), constatai come il vino fosse meravigliosamente lo stesso. Perfetto, sublime.
Ricordo poi l’annata ’70, la ’71, la ’75. Era sicuramente un vino molto caro per il mio stipendio di insegnante, ma si fanno sempre scelte verso quello che ci attrae. E del resto la felicità che mi davano quei Sassicaia nelle occasioni importanti e nelle cene che segnavano quegli anni era impagabile. Così sottoscrivo con totale, partecipata convinzione una frase di Mario Soldati che mi è rimasta impressa (dedicata però ad un altro rosso), quel “costa un occhio della testa, ma per me ne vale due”.
Devo dire che nella scoperta del Sassicaia mi meravigliava non poco il fatto che il territorio di Bolgheri fino a quel momento non si fosse mai distinto per alcun vino particolare, nessuno che uscisse di fatto dall’anonimato. In un certo senso questo capolavoro sbucava dal nulla. E veniva così subito da immaginare quanto infinito ci fosse ancora da tentare ed elaborare in Italia, per scoperte poi davvero stupefacenti. Quanto lavoro c’era da fare, su vitigni più idonei e poi biotipi, portainnesti, fittezze, nuovi terreni. E quante possibilità e tesori meravigliosamente e autenticamente positivi nascondevano i luoghi del nostro paese. Eravamo insomma solo ai primordi della nostra preistoria.
Ma il Sassicaia conteneva in sé altre grosse verità. Era chiaro che, per arrivare a risultati simili, occorreva una grande intelligenza, una grande tenacia, un’estrema sensibilità, una conoscenza enologica profonda ed anche una capacità economica a poter tentare, sperimentare. Per tutto questo poi ci vuole sempre tempo, estro, anche fortuna.
Ora è fin troppo nota la storia di Mario Incisa della Rocchetta, che tenta il Cabernet Sauvignon nella sua vigna di Castiglioncello, appena sopra i terreni della Sassicaia, fin dagli anni della Guerra. E poi il suo sodalizio non sempre idilliaco e facile con Giacomo Tachis, il grande enologo del cugino Niccolò Antinori, il padre di Piero e Lodovico.
E’ questa una delle storie basilari del nostro vino e del suo ramo più innovativo e moderno. Tanto nota che mi sembra inutile iniziare a raccontarla ancora una volta. Aggiungo solo di essere straconvinto che per arrivare al grandissimo vino ci voglia, sopra ogni cosa, genialità, là dove ci sono infinite mosse da indovinare per arrivare all’apice, all’incanto.
L’accoppiata Mario Incisa della Rocchetta-Giacomo Tachis, pur in qualche asperità, è stata la base profonda per questo esito. Da un lato l’aristocratico proprietario, educato ad un gusto internazionale, testardo, autoritario, ma teso ad andare oltre, a rischiare per il miglior vino possibile, pur senza una specifica preparazione tecnica, che lo rendevano uno sperimentatore naif. Dall’altro un enologo raffinatissimo, sensibile, consapevole di quanto alcune cose potessero funzionare, ma altre no. Entrambi piemontesi e dalle marmoree convinzioni.
Una volta Maurizio Zanella mi ha detto che il grandissimo vino può farlo solo il produttore. “L’enologo ad un certo punto si ferma, non può rischiare di mandare in malora la produzione dell’anno. E’ portato così fin dalla vigna e poi nei tempi di vendemmia, nelle mosse di cantina a non osare troppo, a non esagerare, perché, se il risultato va male, rischia il licenziamento. Il produttore capace, con l’ambizione al miglior valore, può invece spingersi al punto limite, all’estremo, magari superarlo ed arrivare così al grandissimo risultato”.
Però, per arrivare a tanto, occorre anche molta e consapevole scienza. E nel Sassicaia il connubio produttore-enologo ha funzionato splendidamente, anche perché lo spirito di Mario Incisa spingeva ad osare, la capacità e la sapienza di Giacomo Tachis a contenere questo sforzo e questa tensione in una raffinatezza positiva, concreta, dalla suprema armonia.
Così, dopo un vino tanto grande, non mi sono meravigliato che un territorio di diamanti come Bolgheri, per molto tempo dopo quella vendemmia ’68, non abbia tirato fuori altre etichette perentorie.
Certo, è anche una questione di umane dinamiche. Altre aziende sono di fatto poi nate a Bolgheri. Ma, perché un nuovo suo rosso mi facesse scattare sul serio l’emozione, dovevo arrivare agli inizi degli anni ’90.
Parlo appunto dell’Ornellaia, caso poi anche emblematico, perché Lodovico Antinori, che fonda questa nuova azienda, è il nipote di Mario Incisa. Ma fino a quel momento non si è occupato direttamente di vino. La sua è stata una vita anche avventurosa, che si compie in gran parte all’estero, piena di viaggi, esperienze, attività lavorative diverse (anche reporter e fotografo negli anni della guerra in Viet-Nam). Uomo dunque di grande curiosità culturale, moderno, aperto alle sfide, credo anche con una sana incontentabilità. Che porta con sé in questa nuova azienda e nell’avventura del suo progetto tutta una lunga serie di intelligenze enologiche internazionali.
Sulle prime vigne dell’Ornellaia ha camminato ed assaggiato le uve una figura mitica dell’enologia come quella di André Tchelistcheff. Lo stesso vino volutamente non riportava in etichetta stemmi nobiliari o elementi di ancestrale toscanità. Il disegno del semplice casale di campagna e dei suoi dintorni, inciso a filo di inchiostro seppiato, è infatti dal pieno sapore californiano o nuovomondista. Ed è comunque un chiaro indizio di novità e rottura con il passato.
La composizione di questo rosso, oltre il Cabernet Sauvignon e Franc, sarà poi significativamente data anche dal Merlot, che, nei punti argillo-ferrosi dei suoi vigneti, troverà una spettacolare vocazione. Ma soprattutto l’Ornellaia, sin dalla sua nascita (la prima vendemmia sarà la 1985), ma ancor più come le vigne man mano maturano, propenderà per una diversa manifestazione di stile e, via via sempre più dichiaratamente, verso un’espressione quasi provocatoria e fuori misura della più ricca potenza ed opulenza del frutto.
Quando insomma le sue annate cominciano a distendersi nel mercato, diventerà una specie di emblema del grande rosso da uve bordolesi quanto mai concentrato, impenetrabile al colore, infinitamente e meravigliosamente grasso e sontuoso.
Se questo vino non farà particolarmente impazzire gli eunuchi di casa nostra, avrà invece un successo ed una fama immediata nel mercato internazionale, portando molto in alto il nome di Bolgheri. E lasciando intuire come questo territorio sia in grado di esprimere rossi di altra categoria.
Perché qui c’è l’altro aspetto che infrange le conoscenze e quelli che erano un po’ i luoghi comuni della nostra viticoltura, visto che l’anfiteatro di Bolgheri è in riva al mare e da lì il terreno sale di poco. Vigneti dunque senza una particolare altitudine, ma su un suolo ciottoloso di riporti alluvionali e di limo e argille. Soprattutto poi con un microclima dolcissimo, fatto di giochi di correnti e brezze marine che mitigano le calure e nel lungo fresco delle notti calmiera le sue uve bordolesi, riuscendo a donare una gradualità, un continuum di maturazioni che le ricolma di magnificenza e di una dolcissima grazia. Microclima dunque mediterraneo e ventilato, senza ristagni di piogge e nuvole nel periodo vendemmiale, quindi salubre, mitigato e senza eccessi, dove tutto cresce in una progressione solare e felice.
A quel punto poi è l’uomo. Sarà lui e tocca lui raccogliere questi grappoli, “seguire virtute e conoscenza”, se ne ha, per farne qualcosa di strepitoso, di cui essere orgogliosi e che porti una nobiltà fortissima al territorio ed al paese.
Tornando all’Ornellaia occorre dire come nei decenni successivi, pur passando di mano nella proprietà (e assai contesa proprio per essere diventata un’azienda famosissima), i suoi vini si siano sempre mantenuti fedeli a questa loro espressione e tipologia di stile, oltre che ad una qualità costantemente altissima. Ed è obbligatorio aggiungere come con la vendemmia ’87 abbia qui fatto il suo esordio anche l’etichetta del Masseto, da uve di Merlot in purezza, vino monumentale, gigantesco e formidabile (a mio avviso, tra i più grandi mai apparsi al mondo), che esprimerà una specie di nuovo, travolgente ed epico universo a sé.
Ricordo che lo assaggiai per la prima volta sulla vendemmia 1992 (credo fosse l’estate del ’96) e rimasi del tutto, felicemente e letteralmente, esterrefatto. Vino mitico, ripeto, epico, dalla fisicità prorompente ed anche selvaggia, che, assaggiato in tante annate, non ha mai mostrato debolezze o cedimenti. E che per un certo, recente periodo di tempo mi ha fatto anche pensare di non assaggiare più vino e non scriverne nemmeno più.
E’ un fatto questo accaduto solo un anno fa, quando, nel famoso trasloco di cui ho detto, ho ritrovato negli anfratti della mia cantina una bottiglia di Ornellaia 2004 assieme a un Masseto della stessa annata. La tentazione, la curiosità sono state troppo forti, per non immolarle poche settimane dopo al fine di una cena travolgente, dove entrambi i vini, nel loro diverso peso e misura, sono stati davvero totali e abbacinanti.
Ora può sembrare strano, ma non so davvero cos’altro dire o aggiungere su questi vini in quella serata, avendo come un vuoto a questo punto. Io di fatto non li so davvero raccontare, né descrivere, perché ho constatato allora sulla mia pelle cosa possa essere l’attacco repentino e paralizzante di una vera e propria sindrome di Stendhal, e cosa possa diventare nei suoi effetti più negativi, che hanno poi nei giorni successivi come immobilizzato la mia mente.
E’ totalmente reale che per il tempo che ne è seguito io non sono più stato capace di scrivere di vino (ed il mio sito, da più di un bel po’ a secco, ne è la riprova).
Avevo attraversato in quella serata i sapori più buoni che mi fossero mai capitati. Nella mente non mi appariva altro, non poteva esserci più altro. Ero in una sorta di shock da estasi. In un abbaglio accecante. Non mi andava nemmeno di assaggiare altri vini, come se lì avessi toccato una gioia, una perfezione, un piacere non più superabile e nemmeno avvicinabile. Avevo la sensazione che dall’intero mondo del vino io non potevo raccogliere più altro. E dovevo ormai cambiare appunto interessi, curiosità, argomenti, vita.
In questa stasi, anche di sofferenza, dopo alcuni giorni di vera e propria paralisi, ho ripreso tra le mani quello “strano e complicato romanzo”, che mi porto appresso da più di vent’anni.
E’ stato come se l’assaggio di questi vini mi avesse scosso al punto da farmi ritrovare, ma in un altro verso e in un’altra direzione, finalmente chiarezza, lucidità, intuizioni. E nell’arco e nel lavoro dei mesi successivi sono riuscito alla fine a completare e chiudere definitivamente tutte le storie del romanzo (ora devo trovare l’editore, ma vabbé).
C’è però ancora un’azienda che ha segnato, a mio avviso, profondamente il territorio e la moderna storia dei vini di Bolgheri, con un’idea, uno stile, un’intensità tutta propria, particolare e diversa. Mi riferisco a Le Macchiole. Che si apre (come sempre è l’uomo ad agire, mettere in discussione, creare) su un personaggio ed una storia.
Con Eugenio Campolmi, persona in questo caso (e finalmente) nata e cresciuta a Bolgheri, ho avuto soprattutto lunghe conversazioni telefoniche. Poco sapevo del suo prima. Lui mi ha raccontato di essere stato un ragazzo scarsamente interessato agli studi, un po’ svogliato.
La sua famiglia comunque già nel 1975 aveva comprato un podere, appena verso il mare, per fare vino. Ma la costruzione, qualche anno dopo, della Variante-Aurelia che dovrà passare proprio sopra quel loro terreno, porterà in breve all’esproprio.
Da questa vicenda, che può inizialmente sembrare una disgrazia, nasce invece una fortuna. Perché il ragazzo, ormai cresciuto e colpito nel frattempo da una folgorante passione per i grandi vini, individua alcune aree più nell’interno di Bolgheri, dal terreno più complesso e posto più in alto, su cui impiantare vigne fitte, per tentare il massimo in qualità.
A partire dunque dal 1983, divisi per parcelle, i terreni vengono via via studiati per individuare non solo i vitigni più idonei, ma anche i cloni e portainnesti più vocati in quel particolare contesto.
Sarà sua inoltre l’intuizione a puntare sul Cabernet Franc come vitigno a maggiori potenzialità del territorio, così come l’idea che il meglio della produzione vada vinificato e imbottigliato poi separatamente, come monovarietà.
Con il 1989 nasce così il Paleo (che dalla 2001 sarà appunto costituito da solo Cabernet Franc). Con la ’94 fanno la loro apparizione il Merlot Messorio ed il Syrah Scrio. E a partire dal 2002 le vigne saranno condotte interamente in biologico.
Bassissime le rese. Barrique praticamente nuove per ognuno di questi vini ed anche in tempi assai abbondanti. Prendono allora corpo dei rossi meravigliosi, concentratissimi, ma inizialmente assai duri, tesi, di splendida fattura ed anche rigorosissimi, ancora pieni di nervosità, tutti tendini e muscoli, con una forte combinazione tannini-legno-acidità e la necessità dunque di molti anni di vetro poi per formarsi, crescere, aprirsi e concedere il loro mondo di aromi e sapori.
Mi piacevano molto, lunghissimi di persistenza, anche se davvero crudi al primo impatto. Volutamente non avevano in sé quella morbidezza cremosa, matura e generosa che porta comunque i vini a darsi, in particolare poi quando venivano presentati a 3 anni dalla vendemmia. Erano nei fatti vini nati per affinarsi e definirsi molto nel successivo tempo di bottiglia.
D’altra parte io dovevo recensirli allora, quando erano in commercio e non certo 10 anni dopo. Capivo e sentivo che quei rossi possedevano un potenziale enorme. E nello stesso tempo il punteggio che ero obbligato a dare doveva tener conto di quello che erano ed esprimevano però in quel momento.
Insomma ero nel dilemma, coscientemente consapevole di quanto il punteggio non dica nulla del vino. Inevitabilmente fotografa un bambino con il peso e l’altezza di quel momento. Così negli articoli cercavo soprattutto di spiegare il Paleo, il Messorio, il loro carattere, il valore. Mi raccomandavo poi di saperli conservare a lungo. E qui ho un ricordo di Eugenio che ancora mi brucia e di cui mi vergogno, che fa veramente capire quanto la vanità renda totalmente stupido il genere umano.
Dovevamo essere nei primi mesi del 2002. Avevo recensito i vini de Le Macchiole su Repubblica. Avevo avvisato l’azienda dell’articolo, ma, dopo un mese, nessuno mi aveva richiamato.
Telefono così ad Eugenio. Lo trovo un po’ taciturno. Gli chiedo del mio articolo, se per caso lo ha letto. Accenno al fatto di non essere stato richiamato … E lì Eugenio mi dice “Sì, ma io sto morendo”.
Aveva quarant’anni. Non mi sarei mai aspettato una cosa simile e rimasi di sasso. Non riuscivo più a fiatare davanti ad una cosa tanto terribile e definitiva.
La moglie Cinzia Merli ha però continuato l’opera di Eugenio con una determinazione tenacissima ed esemplare, che mi ha sempre molto colpito. Devo anzi dire, negli assaggi di tutti questi anni, che lei ha fatto crescere i vini ancora di più, così come del resto maturavano i vigneti (con l’aiuto dell’altro personaggio che ha avuto un grosso ruolo a Le Macchiole sin dalle primissime annate, che è appunto l’enologo Luca Dattoma).
Questi rossi si sono dunque sicuramente ancor più approfonditi e definiti negli anni e rappresentano magnificamente la terza stella di un triangolo, che è la storia iniziale di Bolgheri. Il Sassicaia con la sua incontaminata grazia ed eleganza, i vini dell’Ornellaia con la potente, maestosa sontuosità e ridondante, tracimante, morbida grassezza. Infine Le Macchiole, sicuramente con rossi meno piacioni e facili nell’immediato, ma profondissimi, con una superba trama fitta di intensità, lunghissima, intarsiata, rigorosa e con un’infinità di futuri bagliori.
Se c’è una fine nelle storie è che davvero tutto torna, la vita scorre, ritrova il suo corso, torna a bagnare l’alveo prosciugato.
Abbiamo così davanti la foto di Elia e Mattia Campolmi. I due figli che dovranno proseguire l’opera dei genitori. Ed è impressionante come il più grande dei due sia il ritratto di Eugenio, mentre il secondo abbia i lineamenti del viso della madre. Personalmente non li conosco, ma auguro loro tutto il miglior futuro e il miglior lavoro. E, per concludere questa introduzione, devo tornare ancora una volta alla mia cantina, che in questi tempi calamitosi e abbastanza deprimenti resta sempre una confortante riserva e miniera di nascoste delizie. Perché tra le ultime bottiglie scovate e che hanno avuto davvero un senso in questi mesi c’è stata quella di un Messorio 1998.
Dicevo che, quasi per una legge di contrappasso, nel nostro lavoro si assaggiano inevitabilmente vini giovani e crudi, imbottigliati da troppo poco tempo, ma ormai sul mercato. Di questi si vuole sapere. Ed è così un continuo, frenetico aggiornarsi su nuove etichette.
Ho già detto poi come i vini delle Macchiole abbiano cromosomi di durezza e tenuta negli anni davvero particolari. Così non mi è parso vero di poter assaggiare un Messorio con 19 anni di età.
Gli effetti della sindrome di Stendhal erano di fatto già scomparsi, ma non la loro memoria. Ed ero ormai nel pieno del lavoro sul romanzo, quando ho aperto questa bottiglia, che è apparsa tanto meravigliosa da diventare una riconciliazione con il vino e con il tempo.
Il colore che avevo davanti appariva totalmente impenetrabile, il naso di un fascino grandioso e di poderosa complessità, con strati quasi rabbiosi (davvero insoliti in un Merlot) di polpa di frutto e inchiostri. E man mano, come il vino si apriva, affioravano e fluttuavano nel loro divenire le prime note ematiche, superbamente tartufate e intimamente dolci.
Con quasi vent’anni di età questo vino appariva giovanissimo ed in grado di poter ancora ulteriormente crescere. Ma oramai la bottiglia era aperta. Dico così dell’indicibilità della bocca. Sentivo come il tempo fosse trascorso dentro questo Messorio, decenni durante i quali io ero vissuto, avevo viaggiato, discusso, assaggiato, mentre questa bottiglia riposava, dormiva (sognava forse?) e cresceva. Così l’impressione sempre provata nei grandi rossi de Le Macchiole a poca distanza dalla loro vendemmia (quella cioè di una loro intelaiatura strutturale fittissima, serrata che sommergeva e imbrigliava di fatto il frutto, rendendo così il vino crudo, austero) finalmente si era dissipata. La trama e l’ordito erano sempre presenti, vividi, forti, ma in tutto questo tempo (che trascorre a volte anche perché si compia qualcosa di positivo e felice) avevano iniziato a disserrarsi finalmente, a schiudersi, rimanendo sempre più ricolmi di colori, di polpe e creme complesse (in un loro altissimo, rigoroso diapason), eppure deliziose, godibilissime ora, che a quella densità di frutti di bosco, inchiostri, goudron, tartufo, tabacco aggiungevano alla bocca una maestosa, densa, conturbante, sontuosa cioccolatosità.
Insomma un grande rosso, da brividi, tra i più buoni mai assaggiati, che lasciava la sensazione di poter elaborare, essere e diventare qualcosa di ancora più grande con ulteriori anni di bottiglia.
Personalmente non so quanti anni io ancora ho, ma questo Messorio ’98 è stato sicuramente un assaggio splendido, che ho pienamente e consapevolmente goduto, una mia tappa nel percorso di appassionato del vino e di come questo possa essere una chiave di lettura del mondo, dell’esistenza, pensando appunto a come il tempo rimane, opera, agisce, ha un senso e compie anche cose di travolgente bellezza.
Questo dunque il mio rapporto e la mia storia durante la prima, fondamentale epoca di Bolgheri. Ed è evidente come abbia poi seguito con la più grande curiosità il suo sviluppo e la crescita successiva di nuovi produttori, proprio perché immense erano ormai le mie attese.
Tutti gli anni del nuovo millennio sono stati così costellati da degustazioni comparate, appuntamenti a volte organizzati dal Consorzio, qualche viaggio, ma più spesso, data l’età sempre più veneranda, con campioni che mi arrivavano a casa.
Ecco, il loro arrivo (e lo confesso anche nei confronti di altri vini italiani che i vari, altri Consorzi mi proponevano) creava uno stacco da tutto il resto e ne faceva un mondo a sé, per quel senso di gioia che provavo nell’assaggiarli. Erano rossi insomma con una loro riconoscibilità territoriale, che potrei definire di soavità ricca, di grazia felice, sempre in una cremosità dolce e un’armonia perfetta tra eleganza e pienezza, carichi di aromi deliziosi dal superiore equilibrio.
Non erano infatti poche le etichette che davano un’interpretazione magistrale dell’uvaggio bordolese, e sempre in chiave toscana, perché quella morbidezza, quella crema, il tessuto stesso e la sua consistenza, la particolarità ed il tono dei profumi avevano dentro di loro una straordinaria ed incantevole, radiosa riconoscibilità.
Ecco, nei migliori vini di Bolgheri ho sempre colto uno stato di grazia degli aromi e del loro corpo, assieme ad un baricentro perfetto dei volumi.
Oltre la simmetrica classicità degli equilibri, mi sembra inoltre, rispetto ai bordolesi di altri territori italiani, che in questi rossi tutto si dilati e cresca, si infittisca, pur rimanendo nei confini di una eleganza deliziosa e incomparabile.
Credo, oltre la composizione dei terreni, che ha di certo un suo peso, giochi qui molto questo elemento climatico e di correnti aeree, di ventilazioni, che dona grande freschezza a tutto l’anfiteatro bolgherese, con davanti il mare ed alle spalle il progressivo sollevarsi delle colline. E’ dunque il continuo alzarsi, girare e rincorrersi di correnti anche nel pieno dell’estate (che resta il momento fondamentale per le uve) a donare quella salubrità, equilibrio e progressione dinamica ad ogni acino ed a segnare poi con quell’allure di incontaminata finezza i vini futuri. Come già non capita, ad esempio, nella Maremma più meridionale, appena 20-30 chilometri più a sud, dove l’insolazione è più forte e meno schermata dai venti, con il risultato di un appesantimento del patrimonio delle uve ed una certa matura mollezza poi nei vini.
Un’ultima nota di memoria infine mi viene dall’esperienza di lavoro. Se ho ricordi ancora positivi dei miei ultimi Vinitaly, sono tutti dentro il “Salotto di Bolgheri”, almeno così io lo chiamavo in quegli anni. Dove prenotavo per tempo l’appuntamento. E lì, in uno spazio separato e arioso, isolato dal bailamme frastornato e vociante che si consumava appena fuori, seduto su una comoda sedia, mi venivano serviti uno dopo l’altro i Bolgheri Rosso e Superiore delle nuove annate, dentro calici rigorosamente avvinati da sommelier competenti e discreti.
Un tempo (meraviglioso e proficuo, pieno di grandi vini, uno dopo l’altro) durante il quale mi si affacciavano nuove etichette con il frutto dei loro sapori, i loro caratteri, i suoni, le tonalità, gli stili, i siti, le diversità nella composizione dell’uvaggio, così come mi apparivano via via luoghi, pensieri e sensibilità differenti.
Ho imparato molto in questi assaggi, ho incamerato informazioni, si sono sedimentate impressioni e idee su quello che andava accadendo a Bolgheri. Quali erano i vini che potevano avere il destino di un grande futuro oppure sembravano invece rimanere in una media, seppur alta (fare qui rossi cattivi è sempre possibile, ma è anche difficile).
E comunque tutto il Vinitaly dovrebbe essere così, un luogo dove poter assaggiare e ponderare con molta attenzione. Mi rendo conto di sembrare esagerato, però ritengo che l’assaggio abbia una sua doverosa sacralità. In fondo si valuta, raccolto lì in quel calice, il lavoro ed il progetto di tantissime persone, che vi hanno speso il loro tempo, il loro ingegno, la loro fortuna. E tutto questo credo che meriti un rispetto ed un’attenzione estrema.
Così ho alla fine smesso di andare al Vinitaly con la sua sarabanda di stand, di padiglioni surriscaldati e maleodoranti, tra centinaia di incontri e incroci, baldorie frenetiche di bicchieri non sempre puliti e nasi infilati a sentire chissaché, fiati pesanti che ti parlano e da cui occorre fuggire con la massima fretta …
Torno così alla finalità di questo lavoro: indicare quei Bolgheri ancora poco conosciuti oggi. Quelli che mi sono apparsi, negli assaggi di questi ultimi anni, i più vicini (per qualità, continuità, bellezza, per la lucentezza e il respiro che posseggono) a diventare molto famosi, ad essere in futuro nominati, premiati e contesi. I rossi a cui mi affido, se voglio trascorrere una bella serata, non so, un’occasione, festeggiare il ritorno di mia figlia (è un’anima davvero errabonda, quanto bella e nobile) o colpire la fantasia, il gusto di ospiti e persone amiche con etichette che non conoscono.
Sono grandi vini che escono dai cliché, dalle consuetudini, dalle ovvietà, dai margini noti. Ed hanno sicuramente molti, ulteriori spazi di crescita, ora che sono in bottiglia (ma soprattutto e inoltre nelle vendemmie a venire), nascendo da vigne oggi ancora piuttosto giovani.
C’è bellezza e talento in questi rossi e c’è dunque vita, movimento, futuro, il fascino di quello che sarà. Ma sono anche l’indicazione dei decenni di lavoro che si è fatto a Bolgheri, le verifiche sui vitigni, fittezze, portainnesti. La qualità e la magia inoltre che qui manifesta in particolare il Cabernet Franc, che ormai molte aziende propongono in purezza, con il suo carattere proditorio, con una personalità che sorprende di vendemmia in vendemmia, un’aromaticità ed una verticalità che nessuno immaginava 20-30 anni fa, quando invece sembrava il Cabernet Sauvignon il grande vitigno di riferimento. Per non parlare poi (minori nel numero) anche di alcuni grandi Merlot che qui sono nati.
Vorrei tuttavia spendere le ultime parole su una considerazione intorno all’uvaggio bordolese. Questa rincorsa al vino da monovitigno mi sembra l’importante tappa di una necessaria ricerca, che ha portato alla scoperta di vigne e di sicuri grandi vini con etichette superbe, che ovviamente andranno mantenute e, se possibile, ulteriormente migliorate con la maggiore età delle vigne e la progressiva esperienza incamerata.
La ritengo tuttavia anche la riprova di un momento iniziale, di un primo step nella giovane storia di Bolgheri, la dimostrazione di quanto si stia indagando in vigne e siti, incamerando un patrimonio di dati che saranno futuri e fondamentali punti di riferimento.
Personalmente però io sono dell’avviso che l’uvaggio bordolese contenga dentro di sé diverse marce in più come ulteriori possibilità espressive. Ed in questo senso proprio l’approfondimento dell’esperienza sui singoli vitigni può portare a qualcosa di ancora più esaltante nel loro mix, frutto della selezione dei migliori risultati ottenuti dai tre vitigni (quattro, se in vigna si ha anche il Petit Verdot).
Sull’etichetta da uvaggio insomma ritengo che i produttori dovrebbero credere molto di più. Un vino che di volta in volta potrebbe, a mio avviso, dare il massimo risultato in ognuna delle aziende di Bolgheri, certamente diverso nella composizione da produttore a produttore ed anche in base appunto a quello che in ogni vendemmia la natura ha saputo offrire nella qualità dei singoli vitigni.
Però la possibilità di dosare al massimo quanto ognuna di queste varietà possiede (similari per un certo mondo aromatico, ma differenti nel carattere, nell’umore, nel peso, nel volume, nella profondità e nella disposizione a concedersi) è un’opportunità splendida ed incomparabile, una tavolozza bianca da saper riempire ogni anno di colori, aggiungendo note, sfumature e suggestioni. Toccando così la complessità più profonda di un suono orchestrale, dove saper dimostrare appunto il gusto, la capacità, l’estro, la bravura ed il sentimento del miglior produttore di vino, il suo senso estetico e la capacità di dominare e sfidare quello che è il tempo. Perché questi rossi possiedono, fermi e racchiusi dentro di sé, i cromosomi per crescere davvero per molti, favolosi decenni.
A breve uscirà la seconda parte “I Grandi Emergenti di Bolgheri”
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