Tenuta di Trinoro 2014 (95 ?)
Camagi 2014 (94-95 ?)
Tenaglia 2014 (93 ?)
Magnacosta 2014 (92 ?)
Palazzi 2014 (91 ?)
Tenuta di Trinoro 2013 (94 ?)
Magnacosta 2013 (93 ?)
Palazzi 2013 (92 ?)
Tenuta di Trinoro 2012 94-95
Palazzi 2012 93
Magnacosta 2012 92-93
Non mi è accaduto molto spesso, però a volte una giornata che si annuncia importante e piena di aspettative può diventare ancora più sorprendente. Non so, la trama di una romanzo, che all’inizio non ti prende, si trasforma in una profonda avventura dello spirito, un primo appuntamento a vent’anni con una ragazza, che ti intriga appena un po’, esplode in una cotta travolgente. Insomma a volte gli avvenimenti ti possono stupire in positivo. E le cose belle poi vanno dette, raccontate. La vita non è solo una eterna sfilza di disgrazie. Ci sono anche grandi piaceri nell’esistenza, improvvise scoperte e cose che ti meravigliano, ti tolgono il respiro, nonostante già si parta da aspettative alte. E ultimamente io quelli che si lamentano e basta, che profetizzano solo catastrofi, leopardianamente li prendo a schivo. Ho voglia di guardare al mondo con un po’ di sorriso, appunto, provare a prendere il meglio.
Tornando al vino, quello che mi è successo con gli ultimi assaggi di Trinoro ha a che fare con quanto raccontavo all’inizio.
Mi trovavo dunque, in un raro e recente viaggio in Toscana, non lontanissimo dalla Val d’Orcia. Butto così la telefonata ad Andrea Franchetti “Sto abbastanza vicino. Se domani faccio un blitz a Trinoro, diciamo in tarda mattinata?”.
“Io sto a Roma però” mi risponde lui. Ci pensa su un attimo “Ok, vai, parto domani mattina. Ci vediamo a Trinoro per mezzogiorno. Ci sono novità da sentire”.
Ora il pranzo a Trinoro, preceduto dall’assaggio dei vini in prossima uscita, è, come ho vagamente già accennato, una delle grandi gioie di questo ultimo paio di lustri, che mi distillo curativamente per quell’una o due volte l’anno, a dissipare malesseri e cattivi pensieri. Davvero una superiore medicina alla vita e alla bellezza, una specie di viaggio nel tempo o nel Tibet, con una inedita sequela di nuovi vini dai colori impenetrabili che mi verso lentamente nei calici, dopo averli avvinati (va da sé), prima dell’arrivo dei cibi (tutti, come dice Andrea, pasta a parte, nati e cresciuti a Trinoro).
D’inverno siamo nella grande cucina dall’aria antica e vissuta. Con il bel tempo si pranza all’aperto, sotto la tettoia di canne, davanti il paesaggio che precipita nel silenzio delle vigne e dei boschi attorno e si innalza poi, oltre l’Orcia, verso la rocca di Radicofani e, ancora più lontano, dentro i colori dell’Amiata.
I vini (adesso ci arrivo) sono sicuramente il motore pulsante ed il suggello della giornata. Ma tutto il loro cuore appassionato (perché i vini di Trinoro sono delle bombe di sentimento) deve mettere sotterraneamente in circolo filtri, umori, memorie. Così quel pranzo si tramuta nel ritorno a quello che eravamo decenni or sono, in quei pensieri, dentro la percezione di una Roma diversissima che ci respirava addosso, in uno stato d’animo e una dimensione di epoca, che ha inciso la mia giovinezza e quella di tutti gli altri attorno a me.
Alle volte, ridendo, parliamo nel gergo di quei decenni, con le parole, le espressioni che si usavano negli anni ’60-70 (perché nel linguaggio c’è tutto il codice genetico di quello che abbiamo visto e vissuto), quando eravamo dei ragazzetti (che il vocabolario orrido e banale dei dominanti di allora definiva con il termine insopportabile di) contestatori e gli sguardi di giovani coetanee ci facevano sembrare immenso ed eterno il futuro.
Ma non c’è stato mai un graffio di malinconia in quei pranzi, tutto mi è sempre apparso sospeso in un tempo immoto di serenità e spesso anche in un’atmosfera di trasparente allegria tra due persone della stessa generazione, della stessa città, anche se di quartieri e ceti sociali diversi, ma sicuramente con delle affinità elettive, che hanno camminato nella giovinezza lungo parallele separate, ritrovandosi poi all’improvviso in questo nuovo millennio. E ora si incontrano una-due volte l’anno, ma solo in questo lembo ancora un po’ selvaggio della Val d’Orcia.
Allora, a farla breve, erano giunte a questo punto le aspettative per il giorno dopo. Io ero ormai pronto a godermi la festa e l’immersione in questa specie di come eravamo.
Ora (altra piccola parentesi) confesso di essere un uomo arcaico. Il telefonino lo tengo così bello spento e morto. Né mi articolo su facebook, twitter, linkedin, whatsApp o quant’altro. Del resto vivo quasi sempre dentro casa, metà del tempo al computer (spesso a leggere o scrivere e-mail). Sono dunque, per chi vuole, facilmente raggiungibile. E nei miei rari viaggi accendo il cellulare, faccio la telefonata in quel momento necessaria. Poi lo rispengo e via. Del resto o sto in macchina o ad assaggiare vini e rispondere lì ad una chiamata diventa terribilmente urticante, quando non pericoloso.
Prima di lasciare l’albergo dunque il mattino dopo, chiamo casa in una consueta routine e apprendo da mia moglie che Andrea mi sta cercando e che non ha capito bene cosa gli sia successo.
Già dalla voce poi trovo un Andrea trafelato e, direi, furioso. E’ appena uscito dalla stazione di Polizia per la denuncia. Sceso insomma di casa quella mattina, per arrivare a Trinoro, ha trovato la macchina con le quattro gomme squarciate. Capita dunque anche questo (e neanche raramente) nella nostra città, che si va imbarbarendo ormai sempre più.
Comunque l’appuntamento è saltato. “Senti, però passa” mi dice. “Ti faccio preparare i vini. Ci sono delle sorprese. Dimmi poi che ne pensi”.
Un’ora dopo ero a Trinoro. Ed, entrato nella cantina, c’era un cartone da 12 bottiglie che mi aspettava. Sacrale. Immenso. Totemistico e supremo contenitore di sogni e delizie. Me lo guardavo. Mi sembrava che brillasse come il Santo Graal. Solo per pudore non mi sono inginocchiato a pregare. Ma probabilmente avevo lo stesso sguardo stupefatto che avevo colto negli occhi di mia figlia, quando nel ’93 la portai per la prima volta da Hamleys.
Il pranzo era ormai andato, va bene, ma con il carico che trasportavo (io che non amo guidare) potevo viaggiare da solo fino al Polo Nord e tornare poi indietro a tutta velocità, fiordo a fiordo, curva a curva, senza mai un momento di sosta. Mentre continuavo a domandarmi cosa potesse esserci in quel misterioso e incantatorio cartone.
Vengo così ora ai vini (so di aver abusato della vostra pazienza), che ho scoperto solo una volta entrato a casa.
Campionatura completa allora di tutti i cru della vendemmia 2014 e della 2013, ovviamente non ancora imbottigliati e presi dai legni o dalle vasche (di questi vini do il punteggio tra parentesi e con il segno ? . Ci ritornerò su, quando saranno in bottiglia ed in commercio), poi i cru 2012 (imbottigliati nella primavera 2014) ed un superbo 2011 di Tenuta di Trinoro, a completamento del set e che fungerà da supremo balsamo lenitivo per qualche nuvoloso tempo a venire.
Questi 8 vini ’14 e ’13, presi dai legni o dalla vasca, andavano dunque assaggiati subito e sono stati così la cura, l’occupazione e lo stupore dei 2-3 giorni successivi, sperimentando anche la tenuta e l’integrità che avevano a bottiglia aperta, dopo 24, 48, 72 ore (oltre non posso dire, perché li avevo ormai tutti finiti e sgocciolati a dovere).
La sorpresa era sulla 2014, che presentava per la prima volta tre cru di Cabernet Franc (che è sempre stato il vitigno più importante a Trinoro). Quei nomi che avevo così visto, indicati sulla grande mappa delle parcelle di vigna, e che avevo attraversato spesso nel giro in macchina che facevamo tra i vigneti più alti, prima di pranzo, prendevano ora finalmente forma in nuove etichette.
Ma, come ho già detto, Andrea Franchetti da sempre vendemmia tardivamente per piccole parcelle, che tiene separate poi anche nei legni a capirne sviluppi, evoluzioni, particolarità. E questa esperienza oramai ventennale ha portato a conoscere e a individuare quei picchi che rendono il vino tanto completo e particolare, da non avere bisogno di altro apporto. Il risultato delle piante confinanti non aggiunge niente e rischia anzi di mascherarne i tratti, l’unicità degli aspetti. Le piante poi finalmente cresciute esprimono una personalità ed un carattere dichiarato ed unico.
E insomma in quelle bottiglie verificavo una delle (poche) verità in cui credo. Che cioè nel vino italiano il meglio debba ancora venire, che siamo solo alla prima generazione di grandi rossi. Con piante ed esperienza di più di venti anni, noi avremo ulteriori immagini, spessori, profumi e sapori. E chi avrà lavorato per andare e vedere oltre il crinale della collina, oltre quel buono (che quando viene meccanicamente ripetuto ogni anno diventa solo scontato), presenterà nuovi vini e etichette su cui interrogarsi e stupirsi, lasciando assaporare anche un po’ di gioia e di ottimismo, che è oggi ahimè così raro.
Allora preparatevi alla sorpresa 2014 di Magnacosta, poi Tenaglia, infine Camagi.
Ma una precisazione su questa vendemmia va fatta, perché è stata tra le più fredde e umide degli ultimi due decenni. E le notizie che mi arrivavano a settembre non erano buone. Ma Trinoro è in alto e particolare, spesso contraddice quanto detta il centro della Toscana (la sua 2010, ad esempio non è stata importante, mentre grandissime sono state la 2009 e la 2011). Qui poi è fondamentale il rush finale dell’ultimissimo tratto. Le raccolte, sempre manuali e pezzo a pezzo, che danno il segno all’annata e la incidono. Quelle che partono dalla decade finale di ottobre e si concludono anche al 10 di novembre su quei 600 metri dell’ultima vigna più alta.
Dentro i suoi vini nerastri c’è tutto il Tenuta. E così ognuno di essi diviene ogni anno profondamente diverso. La 2014 ha appunto tutto il segno di questi ultimi giorni di vendemmia (ma senza alcuna sensazione di sovrammaturo), dove, nel saper attendere, in una esasperante annata che sembrava ad un certo punto non voler concedere proprio niente, il grappolo ha maturato le sue linfe segrete, le ha elaborate di nascosto, non le ha fatte vedere a nessuno. Il rischio è rimasto a mille. Altre piogge avrebbero potuto far marcire tutto. Ma il cattivo tempo a quel punto si è placato. Qualche divinità ostile è rimasta distratta, occupata a fare altro. Le foglie dei grappoli colti in precedenza già arrossavano. Le notti erano fredde e di giorno brillava il sole.
E’ lì che si fa il vino estremo, in quello che avviene nei grappoli, nei precursori di futuri aromi e sapori, che vanno ora percorrendo spazi inediti in una trafelata corsa finale a quel qualcosa in più che va oltre le mode e l’attualità, giungendo lì dove non sono mai stati in quell’anno e nemmeno in tutti quelli precedenti. Mi viene in mente il Pascoli più visionario, il “si cova/ dentro l’urna molle e segreta/ non so che felicità nuova”.
E dunque davanti a me i tre calici di Cabernet Franc dai loro colori impenetrabili, meravigliosamente nerastri. Il Magnacosta è della vigna più bassa, a 470 metri, quella dal suolo ciottoloso attorno alla cantina, dove, millenni or sono, scorreva un fiume. Il Tenaglia è più in alto, intorno ai 550 metri, in pieno pendio su una terra più profonda e sabbiosa. Il Camagi ancora più su, tra i 570-580 metri di altitudine, su un terreno povero, di roccia erosa, e poco profondo, dentro cui la competizione tra le piante è a mille.
Premetto che era la seconda volta che sentivo il Magnacosta, etichetta che era stata inaugurata con il 2011. Quel vino era sicuramente molto buono, ma in parte rimaneva sovrastato da Palazzi e Tenuta. Certo andrebbe oggi riassaggiato per capirne le evoluzioni. Allora mi era comunque sembrato bello ed algido (con quel minimo di freddezza didattica, che non ho mai trovato nei vini di Franchetti). Ma ci sta pure che in una prima annata ci si vada con i piedi di piombo, ci si possa accontentare di un bel vino definito, sicuramente varietale, in un certo senso da manuale del perfetto Cabernet Franc.
Con il 2014 cambia però l’intera musica, il vino mantiene certamente la sua definizione, ma è come approfondito ed al tempo stesso diffonde il suo contorno di eleganza, la grande florealità del naso, la penetrativa mineralità del suo suolo, la linearità bellissima e armonica della composizione, la lunghezza acuta e l’equilibrio della bocca.
Il Tenaglia 2014 poi presenta un varietale ancora più netto e straordinariamente dolce. Ed è dei tre Cabernet Franc quello che presenta più grasso e volume, probabilmente più estratto. Pur essendo pieno di forza tannica, tracima di una abbacinante ricchezza di frutto di more e ribes, risultando dolcissimo e con molta strada da percorrere ora nel legno e nelle vasche (parliamo ovviamente di vini svinati da pochi mesi, che hanno molto tempo per evolversi, mutare, crescere. E questo, non starò a ripeterlo, vale per tutti i vini che descriverò del 2014 e del 2013).
Il mio cuore confesso comunque di averlo lasciato nel Camagi 2014, un Cabernet Franc vertiginoso, il più profondo al colore, severo ed elegantissimo, con un’apertura aromatica più complessa, più graffiante, che già accennava inchiostro e goudron. Mi colpiva il suo nitore e la sua bellezza, la lunghezza e la persistenza alla bocca. Straordinariamente grasso e con un tenore acido a conferirgli una infinita dinamicità espansiva, penetrativa, minerale.
Sono terribilmente curioso di risentirlo ad evoluzione completata e sono altrettanto convinto che il Tenuta di Trinoro abbia ora trovato in casa un suo bel rivale. Ma questa non sarà mai una guerra, soltanto un bell’essere vivi nel confrontarli e berli.
E appunto veniamo al Tenuta ’14 che appare subito appena più vasto ed orchestrale, così come il Camagi era un solista abbacinante. Il Tenuta si offre subito pieno di note floreali che si vanno man mano aprendo in un naso maturo e prezioso. Mantiene quel fondo spettrale che avevo avvertito nel primo assaggio del Tenuta ’11 (quello preso dalla vasca), come una sua intima venatura di drammaticità, sopraffatta poi dalla sontuosa ricchezza dell’estratto, dalla vastità degli infiniti frutti che lo compongono. Eppure in bocca mantiene aplomb, nervosità, lunghezza straordinaria di sensazioni. Ed appare un vino dal potenziale altissimo.
Infine il Merlot Palazzi 2014, che dei rossi dell’annata è quello che meno mi ha entusiasmato, con una precisazione però, visto che l’assaggio migliore me lo ha dato 24 ore dopo l’apertura, nella mezza bottiglia rimasta.
Ribadisco qui come la descrizione di un vino svinato da qualche mese e da poco posto nel legno non può avere niente di ultimativo. Il vino deve ancora camminare, crescere, assestarsi, magari fermarsi, poi riprendere a correre ed evolversi, assai spesso in positivo. Attraversa insomma varie e diverse fasi in questa sua crescita e potrà essere molto diverso, quando sarà imbottigliato.
Tuttavia il Merlot, appunto vitigno precoce, non deve essere stato troppo aiutato dall’andamento di un’annata così fresca ed umida. L’assaggio ha dato un vino di notevole cremosità, anche grasso, tuttavia meno complesso degli altri ed un po’ molle. Curiosamente però dopo un giorno appariva con delle nuances inchiostrate e tanniche che non c’erano prima e gli davano ora più brio e durezza. Il tempo di legno così potrebbe fare miracoli. Ma ci ritorneremo sopra tra un paio di anni, quando questo rosso avrà fatto anche qualche tempo di bottiglia.
La 2013 poi è stata poi un’altra annata fredda, meno estrema della 2014, ma complicata per portare a grande maturazione e in sanità i grappoli delle piante.
Già un e-mail di Andrea mi aveva però messo sull’avviso. “Le annate freschine danno vini lunghi” mi scriveva, perché, nei piani dichiarati di quella visita, era la 2013 che volevo assaggiare, la più vicina all’imbottigliamento.
Ora nei tre grandiosi vini che avevo davanti, scurissimi, vividi, carichi di profumi ed energie, verificavo un’altra piccola verità, che cioè con piante di questa maturità e con l’esperienza che il produttore ha man mano incamerato, con questa durezza di selezione in vigna, si arriva ad una costanza di livello prima impensabile. Certo i rossi di Trinoro manterranno in ogni annata un loro timbro particolare e unico, perché le diverse stagioni li marcano e li segnano a quelle altitudini ogni volta in modo diverso. Ma lo standard di qualità rimane ormai perentorio.
Ricordo i risultati minori di vendemmie come la 2004 e 2005 a Trinoro, dopo che nella 2002 non era stato prodotto il Tenuta, e credo che siano state anche il frutto di inesperienze, di piante giovani e incostanti che dovevano ancora raggiungere il loro equilibrio, di piccoli errori di valutazione, che pesano però, quando l’obiettivo è il picco estremo.
Così con questi tre rossi superbi che avevo davanti agli occhi, traboccanti di spessori e aromi, mi veniva da pensare “Se questa è stata un’annata difficile, io le voglio tutte così”.
Il Merlot Palazzi ’13 appariva profondo, intenso, pieno di profumi, freschissimo e vibrante. La bocca era lunga, grassa, ricca di tannini e con una nota lignea, forse anche un pelo di malico da svolgere ancora, una piccola smagliatura che il tempo prima dell’imbottigliamento potrà correggere con calma. Ma avevo davanti a me un rosso intrepido, un Merlot di consistenza superba, profondo e chiaroscurato, come questo vitigno può esprimersi solo in casi eccelsi, ed assieme fitto, teso, dalle lunghe intensità e le grandi fattezze.
Il Magnacosta ’13 poi appariva perfetto, miglior esito per questa etichetta, prima della suddivisione in cru (ma, mi domandavo, un po’ di Camagi e Tenaglia ci sarà scappato dentro? Io l’avrei fatto). Comunque parliamo di un Cabernet Franc spaziale, penetrativo, lungo, elegantissimo, dritto come una spada, giovanissimo, serio, terso, pronto a crescere per decenni in bottiglia e poi compatto, denso, equilibrato come l’uomo di Vitruvio, solo muscoli e tendini, e contemporaneamente ricchissimo di sensazioni olfattive, che sfumano nel goudron inchiostrato e nel fumo.
Il Tenuta ’13 infine sicuramente più degli altri due denotava un senso di chiusura al naso. Vino inizialmente trattenuto, crudo, come l’annata fredda detta. Il colore poi talmente impermeabile alla luce, da dare quasi il segno di questo sigillo messo lì a non lasciarsi ancora accostare. Ma poi nel largo calice il vino ha cominciato a formarsi ed a salire in un crescendo incantatorio, rimanendo tuttavia con un suo carattere nordico, ancora freddo e in parte trattenuto, con particolarità olfattive però inedite, meno di frutto maturo, dolce e solare, più di inchiostri, catrame, tostato, spezie officinali, erbe preziose essiccate. Il suo è un fitto, complesso bouquet tutto ancora da comporsi. Vino infinitamente lungo e profondo, di nitore estremo, rigoroso e bellissimo, che crescerà per molti anni in bottiglia. Diventerà uno dei Tenuta più belli e longevi. Alla bocca dava già questi suoi preannunci, la concentrata ricchezza era tale da esprimersi in una magistrale masticabilità, densa di more e ribes inchiostrati, in una sensazione di bontà che non finiva mai.
Ora su tutti questi vini, che devono ancora evolversi in cantina e poi in bottiglia, ho dato un punteggio (oltre che con il punto interrogativo) sostanzialmente cauto. Insomma mi tengo piuttosto basso, considerandoli appunto dei vini non finiti, non ancora compiuti. E’ questa soltanto la loro fotografia di oggi, quando sono ancora bambini. Sicuramente ci tornerò poi su, quando saranno in bottiglia e con un tempo adeguato di primo affinamento. Ma quello che mi interessava era restituire l’emozione e l’impressione forte di quanto ho avvertito, nella casualità di grandi rossi in progress, che dovevano essere assaggiati informalmente a pranzo, come un test del momento. E che poi le casualità più impreviste mi hanno consentito di portare a casa e di poterli valutare accuratamente, anche in modo più distaccato e tecnico.
Devo inoltre sinceramente dire che questi 2-3 giorni dedicati ai loro assaggi mi hanno restituito un entusiasmo al vino, alla purezza primordiale delle sue sensazioni, che pensavo in certe giornate di non possedere più (capitano momenti in cui ti senti soffocato nel mestiere, nella routine di assaggi che non ti convincono. Pensi così di aver perso la curiosità, quel candore, quell’innocenza che davanti ad un vino devi obbligatoriamente offrire).
Questi vini invece mi hanno restituito fiducia e mi hanno confermato quanto spazio maggiore ogni nuova vendemmia può occupare e proporre, se il produttore è animato da un serio spirito di ricerca e di avanguardia, di novità, andando oltre il già sentito, anche rischiando, per giungere all’intentato, all’inedito. Mi viene in mente come in uno di questi pranzi all’aperto, mentre si parlava davanti ai bicchieri, si raccontava e probabilmente io gli commentavo i vini che sentivo, Andrea, con lo sguardo verso le vigne, si sia come lasciato sfuggire un pensiero, pronunciando a bassa voce “Voglio fare cose belle”.
Al tempo stesso però questi assaggi così ricchi, intensi, di uno splendore non immaginato, che non avevo mai visto e di cui mi mancavano come le coordinate, mi ha causato nei giorni successivi una sorta di sindrome di Stendhal. Mi sentivo talmente appagato, sazio, completo, quasi stordito da tanta bontà da non volere più assaggiare vini. Non solo, questa ridda di sensazioni erano tanto forti, ma nello stesso tempo così disordinate, confuse, aggrovigliate, da non riuscire nemmeno a scriverne. Dovevo lasciar sedimentare tutto. Per capire dovevo aspettare. Il fisico e la mente, con i loro tempi, dovevano immagazzinare e poi decodificare, dare ordine ai pensieri e permettere alla fine di riflettere.
E ne sto scrivendo solo ora, di fatto a distanza di due mesi da quei primi assaggi. Ma tant’è, questi sono i miei tempi.
C’era però anche il 2012, già imbottigliato, come detto, dalla primavera del 2014, in quel cartone. E così l’ho pilotato per una buona occasione.
Per il compleanno della donna che mi sopporta da tempo immemore, mi sono fatto questo superbo regalo. Costamagna, Palazzi, Tenuta di Trinoro a cena. Chi può dire d’aver fatto altrettanto?
Era passato di fatto già più di un mese dall’assaggio dei 2014 e 2013.
Venendo dunque alla 2012, è stata un’altra annata caldissima, ma, a Trinoro, meno rovente della 2011. Qui però tutto è particolare e si stempera con l’altura, la luce. Le piante poi stranamente sono andate avanti in modo lento per tutte le stagioni dell’anno (chi sa, forse erano stanche per i grandissimi frutti dati nell’autunno precedente o forse c’era una nascosta sapienza della natura in questo percorso lentissimo delle viti). Le prime fruttificazioni primaverili hanno comunque quasi preceduto le foglie, che hanno aperto le loro pareti in modo tardivo e pigro. Sembrava quasi che procedessero al risparmio. Quello che appariva all’esterno erano grappolini, chicchi piccoli che a malapena stentavano.
A metà estate Andrea era un po’ perplesso e preoccupato. Ma questo progredire, lentissimo, strisciante, eppure millimetricamente costante, questo rimanere indietro rispetto ai tempi delle altre annate, ha fatto sì che le piante non si siano poi mai fermate, nemmeno nel momento più torrido e siccitoso di agosto. Esse hanno continuato procedere e ad elaborare sostanze su sostanze in un progressivo continuum fino ai tempi canonici di raccolta. Da metà settembre ai primissimi di ottobre per il Merlot, dal 12 al 25 di ottobre per i due Cabernet, una settimana più tardi per l’ultimo Petit Verdot.
Non so se l’ho già scritto, ma va anche detto come a Trinoro si segua da sempre una completa naturalità, i trattamenti sono di argille, propoli, semi di pompelmo. Parliamo sostanzialmente, pur senza che siano dichiarati, di vini biologici. Dalla vigna ai lavori di cantina qui si respira una naturalità piena, totale. Fin dalla prima annata si seguono i cicli lunari anche nell’imbottigliamento.
Tornando comunque a questa vendemmia, la costante in tutte le varietà ormai raccolte era nelle tonalità nerastre dei colori dei mosti ed in un grado zuccherino più leggero rispetto alla 2011 (consideriamo però che in questa annata i vini avevano un grado alcolico di 16, mentre con la 2012 siamo intorno ai 14,5). Tutto è poi proceduto con la stessa lentezza nelle fermentazioni, ogni movimento continuava a susseguirsi a bassissima andatura.
Dopo le svinature Andrea Franchetti non ne era soddisfatto. I vini gli sembravano neri e piatti, in bocca non riusciva ad individuarne la sostanza, il carattere.
Poi però tutto quello che di segreto avevano mantenuto nell’intimo si è cominciato a rivelare sempre di più nei legni e nelle vasche, in ogni mese che via via trascorreva. Questi rossi insomma continuavano a crescere e a prendere forma. Si dilatavano, acquistavano respiro, approfondivano gli orizzonti, proponendosi alla fine ancora una volta come vini totalizzanti e completamente diversi da ogni precedente vendemmia.
Nell’assaggiarli ho avuto la sensazione, rispetto alla 2011, di una agilità sostanziosa. Per taluni aspetti mi sembrano in qualche modo più moderni, come se il loro segno sia in una diversa, ma profondissima essenzialità. Hanno qualcosa in meno in alcol, in orpelli, in peso, ma è come se in questo alleggerimento esprimano ora più energia, più forza viva, più tensione, dinamicità ed un’incomparabile elegante bellezza, profumatissima, nitida, radicata, che va dritta al cuore.
Magnacosta 2012 dunque, con Cabernet Franc in purezza dalla vigna omonima e da Camagi. Colore di una impenetrabilità vivida che è tutto un programma e profumi in cui la viva varietalità si ammanta di toni cioccolatosi di una lunghezza fisica, tattile. Lo trovo assai più ricco e complesso del 2011 e al tempo stesso giovanissimo, tannico, appena astringente e con bordate di frutto denso che si innalzano sempre più fino ad un’elegantissima sensazione di fumo. Grande aplomb e rosso che crescerà molto a lungo.
Il Palazzi 2012 appare poi decisamente diverso dalla ’11, che dava l’immagine di una florida, carnale donna rinascimentale. Qui il quadro è di una giovane dei nostri tempi, bellissima e snella, un po’ nevrotica, dallo sguardo intrigante e misterioso. Si conferma anche nel Merlot, che è vitigno sostanzialmente sorridente e aperto, questa impressione di un’annata 2012 solo al suo primo inizio di percorso, con un naso incredibilmente conturbante, inchiostrato, percorso da una sua trama fittissima di frutti neri in nuce che brillano di spezie raffinate e lunghi strati di goudron. Vino che non si finisce mai di bere, con meno carne del 2011, ma più penetrativo e poi intensissimo, profondo.
Il Tenuta di Trinoro 2012 è invece più similare alla dimensione del 2011, anche se nell’uvaggio c’è qui una prevalenza di Cabernet Sauvignon. Ma il carattere di opulenza, il segno riconoscibile di una superiore maturità e sovrana pacatezza c’è tutto. Rispetto alla 2011 è però più sereno, come un Budda che ti guarda, sgombro da dubbi e da nuvole. E’ un vino di ampiezza infinita, vastissimo nel ventaglio olfattivo, dove tutto conduce ad una finalità di dolcezza nobile, di spazioso respiro complesso. La grassezza saporosa di frutti di bosco e more di rovo si mescola alla tannicità inchiostrata in un finale polifonico, lunghissimo e sensuale, con la razza ed il peso di un grandissimo rosso monumentale, solidificato e come fuori dal tempo, che ti abbraccia, esteso, confortevole, rasserenante.
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