Gli Anni di Poggio di Sotto (prima parte)

Ho incontrato per la prima volta Piero Palmucci nell’estate del ’92, casualmente.

Ero andato in visita al Poggione e camminavo in quel momento con Pierluigi Talenti nella piazzetta di Sant’Angelo in Colle. Lui mi indicò da lontano un signore alto, asciutto, che saliva con passo energico e che mi sembrò in quell’attimo uno straniero, non so, un americano, un nordeuropeo.

“Quello sarà un altro produttore di Brunello” mi disse Pierluigi. Eravamo intanto reduci da una degustazione di molte, molte vecchie annate del Poggione e il Talenti (lo chiamavamo tutti così, con l’articolo a dare quella sorta di grado e di rispetto) era allegro, probabilmente anche fiero dell’andamento degli assaggi.

Quando poi arrivammo vicini, me lo presentò. “Preparati ad assaggiare il futuro miglior Brunello” mi aggiunse a voce alta, sorridendo davanti a lui.

Lì per lì lo presi per un gioco bonario, un po’ ironico. Piero intanto si schermiva, sorridendo pure lui per quella che sembrava solo un’esagerazione. Io gli chiesi quando sarebbe uscito il vino. E lui fece un gesto vago della mano, come ad indicare un tempo infinitamente distante.

Una volta che ci fummo salutati, però il Talenti continuò a parlarmi di questo nuovo produttore, dei grossi investimenti che aveva fatto nelle vigne e di come gli sembrasse una persona determinata e molto seria. Ebbi così l’impressione che tutto quello che aveva pronunciato come in un gioco scherzoso, potesse sembrargli comunque possibile ed anche, come dire, un pericolo, un’ombra scomoda. Perché ho anche imparato a capire in tutti questi anni come ogni produttore, anche il più lungimirante e aperto, viva con qualche inquietudine l’arrivo di possibili grandi vini a competere, tanto più se nascono ad un chilometro di distanza o a cinque o giù di lì.

Questo episodio l’ho poi dimenticato per tutti gli anni successivi. Ma mi è tornato alla luce, devo dire prepotentemente, nel febbraio del 1997, quando, a Montalcino per il tradizionale Benvenuto Brunello, assaggiai uno sconosciuto Brunello ’91, appunto la prima vendemmia di Piero Palmucci.

Non abbinavo ancora il suo nome a Poggio di Sotto. Quella lontana presentazione era stata in effetti assai frettolosa e in qualche modo rimossa nel numero dei tanti nuovi produttori che intanto erano nati, non agganciata poi ad un vino esistente e dunque memorizzato.

Ecco, seduto al tavolo di degustazione, io mi trovavo davanti questo improvviso vino, che mi colpiva enormemente e sparigliava tutte le mie convinzioni, perché non aveva nulla delle caratteristiche che in quegli anni desideravo in un Brunello di Montalcino.

Occorre forse a questo punto fare un po’ di storia, anche chiarire che un giornalista del vino, assaggiatore, degustatore che dir si voglia, non è una macchina asettica che elargisce numeri, come in un’analisi chimica, ma è una persona con il suo mondo critico alle spalle e una sua particolare idea del gusto, diciamo dell’estetica (che può a volte anche diventare una sovrastruttura e un pregiudizio). Il tutto poi va appunto collocato in un preciso momento e dimensione della storia.

Ora personalmente ho avuto una lunga frequentazione con Montalcino e con il Brunello. E’ del 1974 il mio primo viaggio in questo paese o città oppure ombelico del mondovino e comunque imprescindibile luogo con tanto di nobile ceralacca della miglior Italia che mira al grande rosso. A Montalcino insomma, con tutti i suoi spazi ed i suoi vini, ho voluto molto bene. Ci sono stato poi infinite volte. Vi ho dedicato alcune energie, ma ne sono stato anche pluriripagato da assaggi memorabili ed emozionanti, con momenti e vini incancellabili. Mi sono inoltre costruito (ed in questo senso il mio debito è profondo e perenne) nell’assaggio continuo, contemporaneo e possibile di più annate che si andavano evolvendo in ogni cantina dello stesso vino.

A Montalcino, accanto a produttori ed enologi, avendo la ventura e la fortuna di poter assaggiare botte per botte, ho cominciato a capire che cosa significhi, in profumi e sapori, l’altitudine, l’unicità della vigna, la sua esposizione e la sua età, la diversa composizione del terreno, che cosa sia dunque il vino davvero grande e cosa sia infine il vino possibile. Se cioè quella particolare base di futuro Brunello guadagna e migliora da un tipo di vinificazione oppure da un altro, se l’evoluzione è preferibile in botti più piccole o più grandi, se in tanti anni o in pochi anni, se in legni nuovi o vecchi.

In qualche misura è stato come discutere dell’educazione di un figlio e quale possa essere la scuola o università e dunque specializzazione più adatta a far crescere le sue migliori potenzialità.

Ora in tutti quegli anni avevo visto troppi Brunelli nascere grandi, ricchi, opulenti di frutto, generosi, succulenti e poi invece decadere, anche morire a volte in cantina per i troppi anni di legno, per le botti vecchie e non pulite, contaminate da funghi, con travasi non effettuati e con continui, ripetuti errori enologici. L’assaggio di un Brunello ossidato e maleodorante mi dava un senso d’angoscia proprio per lo sciupìo che conteneva in sé, uno spreco, uno scialo di bontà e bellezza che mi pareva insopportabile.

Appartenevo così in quei particolari anni ad una certa pattuglia, chiamiamola di modernisti, che si era battuta anche per una revisione del Disciplinare del Brunello (non dimentichiamo che nel mio primo viaggio a Montalcino erano 4 gli anni obbligatori di legno) e che insomma tra appelli, lettere aperte, convegni era via via riuscita a portare il Disciplinare a tempi più logici e ragionevoli nel tempo minimo di legno, che appunto oggi è di 2 anni.

Mi sembrava poi più opportuno (ma era una mia privata convinzione o almeno questo mi sembrava dicessero gli assaggi che facevo) l’utilizzo di botti non da 50-60 quintali, come quelle storiche, ma assai più piccole invece, che avevano un effetto nel vino molto più concentrativo sia nel frutto che nel colore, con il vantaggio inoltre di un più rapido e continuo ricambio di botti, assicurando dunque legni più nuovi e puliti.

La mia idea del Brunello appena uscito in commercio (ed in questo senso anche un pregiudizio, se vogliamo) era che presentasse un bel colore granato profondo, concentrato, che avesse profumi nitidi di frutti rossi e confettura, con un suo principio di speziato, che si sarebbe dovuto più sviluppare e complessizzare poi negli anni di bottiglia. Questo ovviamente con tutta la serie di variazioni dovute all’altitudine della vigna, al versante, al terreno …

Quando dunque mi trovai di fronte il Poggio di Sotto ’91, mi apparve nel bicchiere un colore sostanzialmente scarico, maturo (l’annata poi era stata per tutti a malapena media), classico dei Brunelli assai tradizionali, evoluti in botti grandi. E onestamente non mi fece una grande impressione. Ma portando quel vino al naso rimasi di stucco. Mi si apriva davanti un mondo incontaminato di profumi deliziosi, aperti fino all’etereo, di un’eleganza rarefatta e finissima in cui le confetture si combinavano alle creme mature, alle vaniglie, annunciando uno speziato sempre più complesso di preziosità e fumé dai futuri vibranti goudron.

L’impressione insomma era fortissima, sicuramente ricordava alcuni Brunelli della tradizione, ma totalmente depurato da ogni difetto e limite, e con un intensità ed una spazialità cremosa, una lunghezza minerale inoltre che avevo sentito solo nei migliori rossi di Borgogna. Ecco, in chiave Sangiovese e con il terroir di Montalcino, la sensazione emozionante e inaspettata era di trovarmi davanti, come per un miracoloso regalo, alla sorpresa improvvisa di un La Tache del Brunello.

Inutile dire come questo vino rimettesse in discussione tutto il mio credo e che a questo punto dovevo andare assolutamente a Poggio di Sotto, capire l’azienda, assaggiare, se mi fosse stato possibile, i vini delle nuove annate che si andavano evolvendo nelle botti, parlare poi, valutare, comprendere chi fosse questo nuovo produttore.

L’occasione del pellegrinaggio, chiamiamolo così, fu colta un mese e mezzo dopo, nei giorni che precedettero la Pasqua del ‘97. Arrivai a Poggio di Sotto nella tarda mattinata, con la mia macchina che arrancava sullo sterrato ripido della vecchia strada.

Piero Palmucci mi aspettava davanti alla cantina (lo rivedevo di fatto per la prima volta dopo quella presentazione di 5 anni prima). E accanto a lui c’era Giulio Gambelli, che ovviamente conoscevo invece da molto tempo. Due personaggi che apparivano completamente diversi nella loro maschera esterna, Piero con un suo piglio energico, sicuro, manageriale, Giulio più silenzioso e schivo, moderato e angelico anche nei gesti, quasi non volesse apparire. Non sapevo che sarebbe cominciato allora un rito che si sarebbe ripetuto poi ogni anno per quasi 3 lustri (aggiungendo, quando mi era possibile, anche un felice blitz estivo), con l’assaggio ponderato, meditato, in molti casi emozionante, di ogni singola botte.

Era certamente un rito, ma ogni volta avvertivo il sapore di un’iniziazione sacrale. Non si assaggiava mai dal rubinetto di metallo della botte, che poteva alterare i profumi del Brunello. Ogni volta così, dall’alto della scala, il cantiniere toglieva il cappello di vetro dalla botte, infilava il cannello nella profondità del fusto, ne eliminava l’aria ed il vino sgorgava nei calici.

Nella memoria mi rimangono, sin dal mio primo ingresso nella cantina, intrisa di quell’aria di Brunello, il profumo dei legni nuovi (Piero li avrebbe poi sostituiti ogni 4-5 anni) dei migliori e più stagionati roveri di Garbellotto, sui 28-29 ettolitri di capacità, assieme a quello svettare delle loro forme alte e strette, che assicuravano la maggior superficie di contatto al vino.

Piero raccontava intanto la vendemmia, gli andamenti, gli sviluppi, la selezione fatta. E i tempi, così lenti e scanditi da una botte all’altra, davano modo di sentire l’attenzione e la diversità dei vini, ponderarli, discuterne, commentare le differenze, valutare l’evoluzione. C’era qualcosa di sereno e magico. A volte capitava la curiosità di due vini, nati dalla medesima base, che prendevano direzioni separate, solo perché si erano evolute in due botti apparentemente gemelle. Mentre salivano intanto i profumi dai bicchieri, con lì dentro qualcosa di incontaminato, come una purezza di suoni che si alzava e che non avrei mai trovato in nessun altro Brunello.

Piero soprattutto ascoltava, credo valutasse anche chi aveva di fronte. Si sarebbe cominciato, come ogni volta, dall’annata più giovane, nei legni solo da pochissimi mesi. E il vino nuovo emanava tutto il suo spazio vivido, generoso e puntuto, già pieno però di una particolare, incomparabile grazia morbida. Appariva tutto in fieri, come qualcosa di soave che doveva ancora sbocciare, ma che conteneva il suo nucleo forte, serrato, duro e acerbo, che chiedeva ora solo il tempo per evolversi e diventare grande, ricevere quel micron di ossigeno quotidiano per potere così respirare, ovattato dai legni, immerso nelle loro vaniglie tostate, volgendo le acidità e gli spigoli in creme, sviluppandosi impercettibilmente, in un lento continuum, per mesi, poi per anni. Come nell’acquario sottomarino di un reef, dove ogni creatura e pianta si evolve, si muove e cresce, così separata dal cielo e dall’aria, perché riceve dall’acqua quel quid d’ossigeno che le necessita, assieme al filtro azzurro della luce.

Il vino del secondo anno già appariva ogni volta più leggibile e decifrabile nel valore della vendemmia, nel tempo di evoluzione, nel passo, nel respiro, anche se ancora brado e incompiuto nelle fattezze, come un adolescente. Non era ancora un Brunello, però ne alimentava le aspettative, lasciandone intravedere qualche bagliore. Si capiva già di quale razza fosse, quale il sentiero che avrebbe percorso, come tutto fosse più concentrato o lineare, più rabbioso o sereno, più sorridente oppure pensoso.

Era comunque sempre il vino del terzo anno a dare il colpo al cuore, l’onda d’urto, perché oramai il Brunello, come lineamenti che uscivano dal marmo, stava prendendo forma, razza, radici, con le prime striature di grafite e goudron ad attraversare lo spazio dei frutti e delle confetture, con il brillìo delle spezie a baluginare vicino e lontano. E a dare così la dimensione di quello che intendeva Balzac più di un secolo e mezzo fa con la sua frase “più che un vino, un’esperienza”.

C’era qualcosa di incantevole in quel colore granato che palpitava di dolcezze aromatiche, qualcosa di fatato e balsamico che si infoltiva in strati. E tutto in una morbidezza voluttuosa e femminea, completamente avvolta da preziosità vanigliate e inedite.

Il percorso del legno aveva compiuto così il suo miracolo e un Sangiovese che era nato da una selezione durissima (anche da una disciplina ferrea, che era il timbro che Piero Palmucci dava al suo lavoro), che aveva raggiunto la sua maturazione più naturale, progressiva e completa nella vigna, dai grappoli più belli e dolci, depurati da ogni acino vizzo o danneggiato, ora entrava in un’altra sfera, dopo aver fermentato in tini di legno, evolvendo gli zuccheri, le acidità, gli aromi primari, le mineralità. Anni così di legni nuovi e su tutto la cura paziente dell’uomo a sovraintendere ogni passaggio con la sua cultura, nella sua idea sensibile del buono. Perché il grande vino è una delle opere emerite del genere umano, ad indicare come si viva in simbiosi con la natura, con le sue piante, le sue forze intime e come attraverso la vite si interpretino le stagioni e gli anni, si faccia tesoro dell’esperienza, così di tutto quello che c’è stato di pioggia e vento, del caldo e poi del fresco nelle notti, del loro diverso succedersi in ogni differente annata, per creare e trasmettere ad altri uomini i profumi e i sapori più rari e autentici che la natura può offrire del tempo che scorre.

Ogni vino in questo senso è personale. Sicuramente è anche frutto di un lavoro di gruppo e di squadra, ma c’è sempre un uomo che stabilisce e decide le modalità, i tempi, i passaggi ed ogni loro esecuzione. E a Poggio di Sotto è stato Piero Palmucci l’homo faber, l’artefice autentico e deciso della propria opera.

Ho provato dunque una sincera, immediata ammirazione per il suo Brunello, mista, come ho detto, allo stupore, perché non ne condividevo la teoria di alcuni passaggi. Ma il risultato era lì, perentorio e forse non lasciava spazio ad altro. E’ nata così in tutti quegli assaggi una lunga amicizia sincera, leale. Non acritica tuttavia, perché la “sovrastruttura” delle mie idee mi portava a mettere in discussione alcune scelte. E perché ad un amico devo sempre dire quello che penso.

Questi miei dubbi nascevano all’assaggio del vino al quarto anno nei legni e sul destino da dare al Brunello Riserva. In sostanza su quando imbottigliare.

Appunto, proprio per la mia amicizia, non potevo tacere. Ormai al quarto anno il Brunello era meravigliosamente pronto e maturo, aveva ricevuto dal tempo di legno e dalla qualità dello stesso tutto il bene e il buono che doveva raccogliere. E aveva, a mio avviso, bisogno solo di essere messo in bottiglia, comporsi ed allungarsi così per moltissimi anni.

Provavo ad accennare “E’ meraviglioso, è fatto. A questo punto dovresti imbottigliare”. Credo sia nato sin dalla prima volta questo balletto, con Piero che mi guardava per un attimo accigliato e poi rispondeva con un serafico “Vedremo”.

In me c’era l’inconscia ansia per i tanti Brunelli che avevo visto perire per il troppo legno, ma certo le uve che curava e accudiva Piero (così come le botti) erano un’altra cosa e possedevano tutta una diversa forza ed energia.

Iniziava poi il ricorrente conflitto sulla selezione di Brunello Riserva. Un vino superbo, individuato sin dalla nascita, che aveva quell’anima in più di carne, concentrazione, rabbia, e che Piero lasciava ancora in legno un anno in più rispetto al Brunello della stessa annata. Io non ero d’accordo (ma molto probabilmente aveva ragione lui e quei vini sono lì a dimostrarlo), pensavo che tutta quella energia in più dovesse essere messa ormai nel vetro e conservarsi così nel vino per altri decenni.

Adesso mi rendo conto, ma probabilmente ne ero consapevole anche allora, di essere stato assai insistente, fastidioso. Non so se Piero abbia pensato qualche volta di mandarmi a quel paese o di sciogliere i cani. Ma io continuavo a cercare di convincerlo sul piano razionale, anche con metafore cavillose. Me ne uscivo con uno “Scusa, ma non è meglio imbottigliare un vino trentenne piuttosto che cinquantenne?” e la domanda lo metteva per un attimo a disagio.

Credevo di intravedere una crepa nelle sue convinzioni granitiche, ma ero anche conscio di illudermi. Perché capivo che Piero era uomo di certezze totali, di una tenacia che non defletteva e penso che questa sia stata una delle qualità che hanno avuto un ruolo nel suo lavoro e nella sua fortuna. Mentre, nel mio piccolo, io sono sempre stato roso dai dubbi, fino alla paralisi.

Finiva comunque lì. Ma, se le visite a Poggio di Sotto erano 1 o 2 l’anno, ci sentivamo in compenso spesso al telefono. Io gli raccontavo dei vini assaggiati nelle ultime settimane, quelli che mi avevano più colpito, si parlava di Montalcino. Poi arrivavo, subdolo, alla domanda che tenevo in serbo sin dall’inizio “Ma la Riserva l’hai poi imbottigliata?”.

Avvertivo un attimo di esitazione. Poi “Ci sto pensando” era la risposta immancabile.

Quei suoi vini erano comunque statuari. E anche se me li ritrovavo ancora in botte, quando capitava il blitz estivo, parevano in certi casi essersi ripresi dall’inverno, non avevano perso niente della loro dinamica e avevano ampliato il mondo di preziosità e spezie. Mi lasciavano davvero a bocca aperta, mi sembravano il vino perfetto, ma su un crinale ormai non più migliorabile. Mi veniva da dire “E’ un capolavoro, non esagerare però”. Oppure provocavo “A questo punto, perché non tenerlo altri 5 anni nei legni?”. Piero sorrideva, ma a quel punto era rassicuratorio. “Imbottiglio prima della vendemmia” diceva. E nei fatti è andata poi sempre così.

Raccontata in questo modo può sembrare però tutto un po’ troppo tecnico, un puro esercizio di degustazione, di maniacale mestiere del vino. Poggio di Sotto è stato invece per me molto di più ed altro.

Già nel ’97 avevo rallentato di parecchio i viaggi nelle terre del vino, quel ripetersi di settimane dal Piemonte alla Sicilia, che erano delle vere e proprie bombe all’integrità fisica, tra degustazioni continue, visite ed assaggi ripetuti nelle cantine, ristoranti poi, pranzi e cene con i migliori vini, vecchie annate e sperimentazioni, assai spesso confronti e bottiglie introvabili che erano lì versate nei calici, pronte ad essere assaporate. E chef con i loro migliori piatti che chiedevano un giudizio.

Avevo dunque ridotto al minimo l’accettazione di inviti e la partecipazione ad eventi. La figura del produttore accanto poi, nel pieno della degustazione, poteva essere ingombrante e soprattutto sarebbe venuto a mancare il contemporaneo raffronto con gli altri vini confinanti.

Assaggiavo così quasi esclusivamente in casa mia. Degustazioni parallele di vini similari per vitigno, annata, territorio, nei bicchieri più giusti e idonei, che erano da decenni ormai miei familiari e quotidiani strumenti di lavoro. Poteva sembrare in questo modo tutto più asettico forse, ma in concreto era assai più professionale e utile, oltre che essere una obbligatoria salvaguardia di quella minima porzione di fegato ancora funzionante.

I vini emergevano ogni volta nelle loro caratteristiche, nelle qualità pure, anche in quelli che potevano essere i loro limiti, raccontando assieme il sito, l’altitudine, il lavoro, lo stile e l’impronta del produttore. Ma senza che ci fosse influenza alcuna.

La mia vita era appunto questa, con un suo ordine e contemporaneamente una libertà totale. Non avevo mai voluto far parte di gruppi di assaggio, essere uno della tale Guida. Avevo accettato collaborazioni editoriali, a patto che non ci fosse nulla da mediare con altri. Firmavo i miei articoli, davo le mie valutazioni e consideravo assai spesso vini che non avevano avuto grandi fortune giornalistiche, ma che a me invece piacevano molto e sembravano significativi del momento e dello stato del vino italiano. Sarebbe stato poi il lettore a giudicare se meritassero o no più attenzione.

Per indole insomma me ne andavo da solo, controcorrente. E nell’incontro con Poggio di Sotto mi era sembrato evidente come anche quel vino ed il suo produttore se n’andassero completamente da soli e controcorrente. In una direzione poi che non era proprio la mia.

Sono davvero convinto che quel Brunello mi affascinasse anche perché veniva da un lontano che mi era sconosciuto e impensabilmente mi apriva delle strade, delle possibilità. Piero Palmucci mi appariva come un uomo solitario, abbastanza ispido nei rapporti, fermo nelle sue convinzioni. Sicuramente, se avesse voluto avere un successo immediato nel vino, avrebbe potuto prendere un enologo alla moda, in ottimi rapporti con i giornalisti del settore, fare così un buon Brunello moderno e corretto. E vivere a quel punto tranquillamente di una certa rendita di recensioni e vendite.

Invece in quegli anni ’90 lui aveva scelto una strada totalmente diversa e impervia, ignorando guru e Guide. Il suo maestro e guida era Giulio Gambelli, uomo profondamente mite e buono, che non si occupava certo di pubbliche relazioni, ma con una esperienza e cultura infinita sul Sangiovese, che sapeva dispensare ottimi consigli duraturi, in chi sapeva ascoltare, e che Piero ha avuto l’intelligenza di seguire sempre.

Da qui è nato un Brunello grandissimo, cresciuto nella tensione del produttore a non cedere di nulla sulla qualità, con una sua idea della tradizione più pura, ma andando poi molto oltre per tante, infinite ragioni. Dalle vigne di Castelnuovo dell’Abate che donano una maturazione meravigliosa al Sangiovese (e dunque con un vino sin dalla nascita assai più morbido e cremoso), ad una selezione che più drastica dei grappoli non si può, ai legni sempre nuovi e non delle Guerre Puniche, come mi è capitato di vedere in cantine di produttori blasonati e storici. Unito a tutto questo poi, una pulizia di vinificazione e dunque una purezza di risultati che non ha eguali.

Sul piano delle recensioni gli esordi per Poggio di Sotto non furono però facilissimi, occorre dirlo. Il vino spiazzava e sono convinto poi che per avere successo in Italia bisogna essere molto conformisti e molto integrati a gruppi di pensiero. Paradossalmente questo Brunello, che voleva essere il più tradizionale possibile, finiva per essere il più diverso di tutti. Piero era poi una roccia, se ne andava dritto per la sua strada, senza guardare altro, senza preoccuparsi di dover blandire, omaggiare e sorridere a congreghe.

Nella seconda metà degli anni ’90 ricordo di aver presentato il suo Brunello come uno dei miei vini preferiti in numerose manifestazioni e degustazioni, notando il sorrisetto di sufficienza di colleghi giornalisti (che 10 anni dopo avrebbero però ripetutamente premiato questo Brunello) e ora non lo prendevano nemmeno in considerazione, forse non lo capivano neppure e pensavano solo che il collega spocchioso stava adesso “toppando alla grande”.

Sin dalla prima vendemmia ’91 ho recensito questo Brunello ogni volta che ho potuto, ne ho parlato negli spazi che avevo, perché questo Brunello mi “sfidava”, andava oltre le mie idee e mi intrigava da matti. Mi irritava poi l’indifferenza altrui, l’ingiustizia, l’assurdità di certe valutazioni totalmente incomprensibili, meritandomi in quegli anni da Piero l’epiteto di “ultimo dei Mohicani”.

Crescevano intanto le annate e le vendemmie. Crescevano anche le impressioni di assaggio con stagioni straordinariamente favorevoli come la ’95, ’97, ’99, 2001, poi 2004. Ma Poggio di Sotto riusciva a stupire anche in annate che non avevano avuto un andamento climatico straordinario, valga per tutte la magnifica versione della vendemmia 2005 e della sua superba Riserva.

Tenevo questo vino sotto osservazione. Lo assaggiavo per seguirne le evoluzioni. A volte lo confrontavo anche con altri grandi rossi italiani assai diversi per provenienza, vitigni e stile. E verificavo ripetutamente come nel vino non ci sia mai esaustività, così come nell’arte. Esistono sempre infinite strade e differenti percorsi per raggiungere il picco, riempire il cuore di chi assaggia. E’ appunto la meta quella che conta. E i profumi di questo Brunello avevano sempre il loro colpo d’ala perentorio, la loro lucentezza impalpabile.

Piero è stato generoso nei miei confronti. Ricordo il cartone di Brunello che mi arrivava nei giorni del mio compleanno e la curiosità, il piacere quasi infantile con cui lo aprivo, quegli strati di polistirolo a proteggere le bottiglie da urti e sbalzi termici (perché Piero è stato sempre preciso, meticoloso in ogni particolare e sapientemente previdente anche in questo) e già sapevo che, oltre le nuove annate, ci sarebbe stata qualche vecchia bottiglia da riassaggiare e poter verificare così quanto il Brunello fosse ancora cresciuto.

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