Grandi Montepulciano d’Abruzzo – I Vini

B60 COMPRESSOGrandi Montepulciano d’Abruzzo – I Vini

Marramiero

Dante Marramiero 2005       94

Dante Marramiero 2003       91-92

Dante Marramiero 2001       94-95

Dante Marramiero 1999       92

Dante Marramiero 1998       92-93

Inferi  2011                          89-90

Del primo assaggio del Dante Marramiero ho un ricordo indelebile, che si riallaccia alla storia della mia famiglia. Potrebbe (adesso lo racconto) sembrare non lieto e certamente non lo è. Però il vino, nelle sue etichette più importanti, ha scandito tutta quella che è stata la mia vita dai 23-24 anni in poi.

Ed ho voluto che fosse così. Dai ricordi di cene con ragazze che mi intrigavano molto. Anche se non era un vero e proprio modo di conquistarle, ma solo di imprimere quella serata e quel momento con il miglior vino possibile, segnarla, nobilitarla. Consumavo in questo modo buona parte del mio stipendio di giovane insegnante. Ed era come se volessi mettere dei punti di riferimento su ogni occasione meritevole. Così nel ritrovare vecchi amici doveva esserci una bottiglia degna. Oppure al pranzo domenicale dai miei genitori o nelle festività e ricorrenze con tutta la mia grande famiglia allargata (adesso ci arrivo), doveva comunque esserci una sequenza studiata di grandi vini, che sceglievo con cura e, maniacalmente, con settimane di anticipo.

Li ricordo tutti. Ogni etichetta si aggancia ad un episodio della mia vita e ad un viso. Il Tignanello ’71 è legato a quello di una ragazza che mi piaceva molto, la scoperta del Sassicaia ’68 al mio grande amico sin dagli anni di liceo ed al suo sguardo sbalordito davanti a profumi che per noi erano completamente nuovi, un Barolo Pira ’67 agli occhi di mio padre che quella sera aveva cucinato meravigliosamente un fagiano, una bottiglia di Champagne Belle Epoque mi fa ricordare una cena con mia moglie, il Masseto ’92 un caro amico, produttore di vino, oggi famosissimo, cui dicevo che doveva ancora migliorare e di molto …

Potrei andare avanti all’infinito, ma ci sono anche fasi diverse nella nostra esistenza, anche momenti meno felici. Ed io poi nasco da una famiglia assai particolare. Delle sue origini ho già detto, ma il fatto è che nel mio caso parliamo di tre sorelle sposate con tre fratelli. Tre famiglie che sono state di fatto una sola. Vissute, durante le estati, dentro la stessa grande casa di Villa Santa Maria e, a Roma, in appartamenti vicinissimi, trascorrendo di fatto assieme l’intera esistenza, in ogni singolo giorno.

In qualche misura è come se io avessi avuto tre padri e tre madri, in una intricata moltiplicazione di affetti, ma anche di dissidi, di amarezze. Sono state comunque persone che hanno avuto una vita serena e molto lunga, che è andata dai 90 anni fino a sfiorare i 100.

Io li vedevo perennemente accanto a me. Erano così tanti, così solidi e stabili, sempre in buona salute fino a poco prima di cadere, da sembrarmi eterni, prolungando dentro di me un infinito senso di giovinezza. Con tutti loro in vita sentivo di poter essere ancora un ragazzino, c’era un’impenetrabile trincea presidiata da loro a proteggermi da ogni insidia del tempo o della malattia. E potevo così permettermi il lusso di non pensare alla morte, potevo scrivere, assaggiare vini …

Era l’aprile del 2004 quando mi arrivò l’invito per la presentazione del Dante Marramiero 1998, prima annata per questa etichetta e di una azienda di cui già molto mi intrigava il suo Inferi. Ma qualcosa era accaduto una decina di giorni prima. E insomma Una dei Sei era stata colpita da un ictus, da cui non si sarebbe più ripresa. Era un primo cedimento della Grande Barriera che mi difendeva e che entro la fine di quel decennio sarebbe stata tutta inesorabilmente spazzata via.

Ricordo e sento quelle giornate come l’ingresso in una età adulta e per questo definitiva, con una diversa coscienza di me stesso e del tempo che rimane. Ora l’elmetto toccava a me. Ero anche io in prima linea a difendere lo spazio e il tempo per la nuova generazione che nel frattempo era nata, quella di mia figlia, dei miei nipoti.

Ma quella sera, ad assaggiare questo nuovo vino (il Dante, come già lo chiamavano, che è poi lo stesso nome di mio padre), mi appariva come una sosta, una parentesi, un soffio d’aria e una fuga dai cattivi pensieri di quel momento, dalle sale degli ospedali, dai turni al capezzale di un’ammalata grave.

Avevo, come detto, già assaggiato diversi Montepulciano davvero importanti, ma il primo impatto con il Dante Marramiero mi ha dato subito la dimensione e l’idea di quella che è un’anima particolare di questo vitigno, quando viene coltivato con rispetto. Immediatamente appariva la sua linea di profondità e severità, di rigore, di forza, senza mai ricorrere però a toni sgargianti o gridati. Era un mondo solido e austero il suo, con un forte senso della misura, della disciplina e di spazio originale a renderlo riconoscibile. E proprio questa sobrietà, questo non voler mettersi in mostra, non ostentare le proprie virtù, mi sembrava un segno del modo di essere della mia gente, della mia famiglia. Mi faceva pensare al legame intimo e fortissimo che c’è tra un vitigno ed il popolo che lo ha coltivato per secoli, alla progressiva simbiosi tra vite e persona.

Tornando comunque al Dante, per provare a semplificare, già in questa annata, che, come per tutte le etichette alla loro prima uscita, era ancora alla ricerca di un proprio stabile mondo espressivo (e, vista ormai a posteriori, rispetto alle successive vendemmie, la ’98 mi appare oggi come la sua versione in qualche modo più brada e rustica), questo vino esprimeva profondità, severità ed una solennità fisica, carnale in un pentagramma tutto di forti equilibri tra frutto, acidità, mineralità, spezie, sottobosco, poi carne, pelliccia, goudron, rivelando man mano una sua essenza assai lunga, ma non opulenta, proprio perché misurata, rigorosa, serrata e assieme aristocratica. Se vogliamo, appena cupa, laconica all’inizio, vino che se ne sta sulle sue e cresce poi nel bicchiere, diventando via via più chiaro, familiare e vasto.

Ecco, il suo segno distintivo era proprio nella vastità profonda, carnale e in una sua certa chiusura iniziale. Non a caso l’azienda ha poi via via prolungato l’affinamento in bottiglia, prima dell’immissione in commercio, fino ad arrivare ai 10 anni dalla vendemmia. E il Dante Marramiero ha in effetti bisogno di tutto questo tempo, dimostrando un carattere ed una longevità straordinaria, che è nel dna intimo del vitigno (ma che qui si accentua fino a farmi ritenere il Dante come il più longevo e complesso tra i Montepulciano), quale appunto grande rosso articolato e monumentale, ma non semplice né immediato, con tutta la sua serie di disegni e rilievi che si possono scoprire e dipanare solo in un arco di tempo assai lungo, da osservare e valutare allora nel loro continuum di progressione e di svelamento.

Anche qui poi, a dimostrazione di una ricerca enologica molto scrupolosa e accurata, diretta alla sostanza reale e concreta del vino (e non dunque alle opinabili querelle sul sesso degli angeli), riferiamo di una tecnica particolarissima nella sua vinificazione, messa sempre meglio a punto e che si basa in primo luogo su una selezione e qualità assoluta delle uve, che nascono in questo caso da un impianto a tendone di 50 anni nell’aerale di Rosciano, a 270 metri di altitudine. Vigneti autunno

Gli acini dunque, dopo la diraspatura, vengono posti in tini di legno troncoconici da 30 quintali e trattenuti, nel centro e nel cuore del mosto, dalle fitte maglie di una rete, rimanendo così a fermentare lentissimamente e a rilasciare via via le sostanze del loro intero patrimonio organolettico e genetico per (leggete bene, sì) 24 mesi. Robetta seria insomma e, ritengo, nemmeno tentata nelle altre regioni o su altri vitigni. Con la svinatura che avviene dunque a più di 2 anni dalla vendemmia. Solo allora infatti il vino, dopo i travasi, inizia il suo elevamento in barrique per altri 24 mesi. E, alla fine di tutto questo tempo, lunghissimi anni poi di affinamento in bottiglia.

Recentemente ho potuto fare una verticale di tutte le annate poste finora in commercio, la 1998, la 1999, la 2001, la 2003, la 2005. La sorpresa era nel trovarmi davanti a vini ancora intatti, perfettamente integri, vini con la schiena dritta e con un cammino avanti a loro dalla durata davvero indefinibile. Già il colore ne era la prima dimostrazione, forte, nerastro ed impenetrabile in tutti i campioni, seppure con piccole sfumature tra le diverse annate.

La 1998, oltre questa spettacolare profondità nei toni visivi, rivelava un ventaglio olfattivo che emanava un’idea di potenza, di densità e subito dopo affioravano note di cioccolata, more di rovo (le more di Villa, ho pensato subito), sottobosco, tabacco, grafite, spezie. Rosso di spettacolare potenza espressiva alla bocca e, rispetto alle altre annate, con un che di brado e primitivo, come di indomito.

Il 1999 invece ne rappresentava la versione speculare nella diversità. Il naso appariva più fresco ed elegante, con note iniziali di spezie e canfore, poi un leggero filo ematico a percorrerlo e a riempirlo di questo senso materico, ma sempre teso, carico di energia muscolare e senza un’oncia di grasso. Alla bocca si avvertivano tannini più sottili e gentili. Ed il vino si lasciava andare morbido, cremoso e femminino, con una lunga persistenza di dolcezza mentolata. La sensazione complessiva era di un rosso più elegante, più ordinato, più moderno, forse appena più leggero, ma anche più prezioso.

La 2001 raggiungeva poi il livello espressivo più alto del Dante Marramiero. Era una sorta di grande quadratura del cerchio, un rosso imponente, frutto di un’annata perfetta, in cui tutte le qualità ed i contenuti si sono dilatati, sono cresciuti, toccando un loro picco massimo. Vino che comunque non ha raggiunto il suo apice e deve ancora esprimersi completamente e compiutamente. Vorrei davvero possedere bottiglie di questo 2001 per poterle valutare per i prossimi 10-15 anni e capire dove ancora possano arrivare e quali ulteriori profumi e sapori possano svilupparsi e compiersi.

Rispetto a tutte quante le altre, questa annata rivelava dunque una superiore, superba ricchezza, una maggiore densità, più sensazioni di frutto. E la bocca manifestava un meraviglioso mix di potenza, grassezza dolce, con il frutto nero pieno di echi speziati, avvolti da note affumicate, che continuavano poi ad emanare un incantevole senso di spessore dal finale profondo ed inchiostrato. Grande rosso deciso, anche con un che di antico e ieratico. Davvero qui mi è venuto in mente “Onorate i padri”. Mi sentivo in quei momenti radicato, al centro di questa terra e dentro tutti i suoi rimandi di memoria collettiva.

La 2003 poi, pur rimanendo nell’ambito gusto-olfattivo del Dante Marramiero, paga ancora oggi il dazio alla sua estate precoce e caldissima. Ricordo ancora quella bolla terrificante di caldo che avvolse la Penisola sin dai primissimi di giugno. Le viti, praticamente di tutti i territori, per proteggere i grappoli dalla calura e dalla siccità, sono entrate in una sorta di letargo, interrompendo un flusso di linfe che ormai non possedevano più, né erano in grado di elaborare. E questo sigillo, questo essiccamento si avverte in tutti i vini di questa annata, è una sorta di impronta digitale che li distingue con tannini un po’ aridi e disidratati. Nel Dante 2003 prevale così oggi un altro aspetto che è quello della mineralità. Il suo frutto è ancora sottile, deve tuttora farsi largo e questo fa sì che non ci siano in lui oggi tante variazioni e movimenti aromatici. Vino da seguire nella sua evoluzione e che, con più di 12 anni, appare ancora chiuso e nello stesso tempo giovane. Non sarà mai il 2001, però possiede, a mio avviso, margini di apertura e dunque di crescita.

La 2005 infine è una vendemmia di gloriosa bellezza. Nel confronto paga lo scotto di essere la più giovane e quella dunque con minor tempo di bottiglia. E’ certamente, accanto a tutti gli altri, ancora un po’ crudo, appare come teso ed essenziale, per certi aspetti baroleggia con un arsenale di profumi in pieno movimento, brulicante di una complessità terziaria di sottobosco, vaniglie, bruciato, caramello, cannella, spezie officinali, inchiostro. La bocca è poi di una compostezza spaziale, solenne, sontuosa con tannini vividi eppure setosi ed in un equilibrio teso tra potenza, austerità ed una virile dolcezza. Diamogli comunque altri anni, altro tempo e sarà sicuramente più grande ed espresso.

Ma nel pacchetto d’offerta aziendale non va dimenticato quell’Inferi, che oggi è giunto alla vendemmia 2011. Parliamo di un bel Montepulciano pieno, ricco, con una bocca estremamente appagante, immediata e popolare. Non possiede l’altezza aromatica del Dante, ma è vino più aperto e pronto, che si concede molto alla bocca, carico di magnifica gustosità e di frutto, che sfuma nel sottobosco, nelle bacche, nel fumo, nell’humus, con una palatalità cremosa e materica, carica di bella e solida dolcezza espressiva.

Pasetti

Harimann 2007     94-95

Harimann 2006      94-95

Harimann 2002      94-95

Testarossa 2011      90-91

E’ bene dichiararlo subito. L’Harimann appartiene a quella ristrettissima cerchia dei miei più privati vini del cuore, un rosso assoluto che mi ha colpito e sorpreso ad ogni assaggio e non ha smesso mai di stupirmi sin da quella sua prima vendemmia, la 2000, che scoprii in un evento che si teneva in un albergo di Roma.

Doveva essere la primavera del 2005, perché di questo vino ho scritto poco dopo su Repubblica nel giugno di quell’anno (è solo l’archivio ad aiutarmi, non che poi …). Comunque li conosciamo tutti quei pomeriggi di assaggi affastellati e confusi nella sarabanda di una grande sala. In piedi, davanti a tavolini e banchetti rutilanti di visitatori a frotte. Braccio teso e bicchiere ad invocare un po’ di spazio. Annusare poi ogni vino rapidamente, dentro un calice dilavato che non ha più nulla di vergine, e scansandosi in fretta, prima che una spalla altrui te lo rovesci addosso. Tirando avanti infine verso il tavolino accanto, provando faticosamente a scovare tra i corpi assiepati quale sia ora il nome del produttore successivo.

Tutte serate che abbiamo stravissuto, in cui è complicato districarsi e di cui forse è anche difficile fare praticamente a meno. Insomma io ero lì, giunto quasi all’ottantesimo assaggio, in un corridoietto che affiancava la sala principale, come dentro una più modesta sottozona, quando incrocio un vino che riscalda il cuore al primo impatto, il fuoriclasse perentorio che se ne infischia di tutto, dell’aria pesante dei tanti vini altrui, dell’afrore di cibi cotti che aleggiano, di salumi e formaggi nei vassoi ad un passo, ma anche del bicchiere che hai in mano, irrimediabilmente contaminato da decine di quelle che Veronelli definiva volgari pocciacchere.

Con quei suoi aromi superbi questo Harimann, a me ignoto, superava e sovrastava tutte le miserie del mondo, avvolgendole di creme dolci, infinite, purissime. Ed io ero lì a strabuzzare gli occhi come tanti decenni prima davanti al volto di Isabelle Adjani in Adele H. o, più recentemente, guardando il gol di Neymar nel novembre scorso al Villareal, qualcosa che esce dagli schemi, sfonda gli argini e ti tracima addosso in un senso di eccitante meraviglia. Perché sono sempre più convinto che il grande vino nell’intimo della sua sostanza esprima prima di tutto la gioia e la felicità di un’intuizione riuscita, una cosa bellissima da guardare, un nuovo gradino di conoscenza, una scoperta, una scintilla, un corpo vivo da respirare ed assaporare, l’impatto con un mondo sconosciuto che ti sorprende.

Poi possiamo farci sopra tutte le riflessioni dell’universo, sul vitigno, sul territorio, l’autore, il portainnesto, il biotipo ed il sistema di impianto. Ma il grande vino ti sa e ti deve folgorare al primo colpo, ti deve incuriosire e stupire, come per ogni opera dell’uomo che esca dalle regole, dal consueto, dalla banalità.

L’Harimann poi non mi ha mai deluso in tutte le sue vendemmie successive. Anche nella 2002, annata che ho sempre guardato con sospetto, è risultato uno dei migliori vini usciti in commercio tra il 2007 e 2008. E comunque quello è stato il mio primo impatto con un Montepulciano “di montagna” o per lo meno coltivato alle falde del Gran Sasso, ai 550 metri di altitudine di Pescosansonesco, in una vecchia vigna a tendone su un terreno ricco di scheletro, dove forti sono le escursioni termiche e le vendemmie avvengono nella prima decade di novembre, perché prima i frutti non possono essere perfettamente maturi. Pescosansonesco (PE) (1)

Inutile dire che qui, in chiave Montepulciano e dunque con tutte le differenze del caso e dei vitigni, la mia memoria possa andare a Trinoro. Stesse altitudini, stessi tempi di raccolta delle uve e qualcosa che li accomuna, quando li assaggio. Territori estremi, a rischio nelle vendemmie così tardive, ma con qualcosa di eroico, concentrato e denso nei risultati, via via da dipanare poi negli anni successivi, e con le stimmate di un’ancestralità nei vini, una solennità potente, primordiale e per niente effimera. Una profondità ed una verità territoriale che io cerco nei grandi rossi, che va oltre il solito taglia e cuci di tante efficienti cantine.

Personalmente ritengo che in questi vini di altitudine si vadano a sommare infiniti elementi nobili, che non sono tuttora chiari per quello che è lo stato attuale di conoscenza sulle uve, su cosa, quanto e come accumulino le loro qualità in contesti tanto particolari. Qualcosa si può probabilmente intuire nella gradualità delle maturazioni, se la stagione è clemente, e quanto i grappoli traggano beneficio da una pianta che matura progressivamente, senza lo stress degli eccessi di caldo estivo che si possono avere più in pianura, quanti aromi si possano elaborare nel contrasto delle lunghe notti fresche. Ma c’è almeno un altro elemento da tenere in considerazione per vigne così alte ed è nella luce incamerata, quanta dunque ne ricevano in più e di quale qualità poi, lunghezza e purezza essa sia.

Ricordo che fu Giacomo Tachis a parlarmi di questo tema più di 25 anni fa (“i quantum di luce” mi andava ripetendo) e raccontava come tale argomento fosse stato sempre pochissimo studiato, se non addirittura snobbato da agronomi ed enologi. Ma per lui aveva invece un valore dirimente, era quello che faceva fare al vino un superiore e fondamentale salto di qualità.

Ora l’Harimann nasce in un contesto davvero particolarissimo. Le uve, raccolte così tardivamente, sono un concentrato di essenze, linfe, zuccheri, polpe di frutto. E questo è avvenuto senza accumuli rapidi e vorticosi, dunque disarmonici, ma tutto si è sviluppato con lentezza e nella luce, elaborando, giorno dopo giorno, anche quei precursori degli aromi più complessi, profondi che vireranno poi nel catramato.

Dopo la raccolta, gli acini hanno fermentato sul proprio mosto per 2 settimane. Il tempo di barrique si è aggirato intorno ai 24 mesi. Un percorso di cantina, come dire, nella norma del vino di qualità. Ma l’eccezionalità è qui data dalle uve, il dono è nel loro patrimonio, dentro tutto quello che contengono e possiedono, con un futuro livello alcolico che oscillerà ogni volta tra i 15 ed i 15 gradi e mezzo.

Il risultato visivo è così in un gran rosso dal colore che brilla, pur essendo totalmente impenetrabile. C’è la percezione di un contrasto fortissimo luce-buio, come in una tela di Caravaggio. Ed il naso è tutto appunto di forti chiaroscuri, opulento, concentrato, eppure tracimante di polpe e bellezze. Se la ricchezza densa, cremosa è un suo sicuro e deciso segno distintivo, non c’è però in lui un filo di stucchevolezza, né niente di sovrammaturo. Nell’Harimann appare una grandiosità e solennità tersa, luminosa, i profumi sono un brillìo di aromi preziosi, vividi e complessi dalla straordinaria suggestione. Rosso monumentale, ma fresco, vibrante, per niente statico, che è una vera e propria gioia degli occhi e del naso, emozionante nel suo diapason espressivo e con qualcosa nell’intimo di indomito e di radioso. Perché non è appunto un vino reticente, laconico, ma un superbo rosso che parla e dice, ricchissimo d’accordo, ma anche con un completo senso della misura nella disposizione e nella qualità degli aromi, come un supremo ordine a scandirne i profumi, che irradiano un senso di incantevole e di preciso, di virile e di infinitamente goloso.

Occorre forse precisare come ogni assaggio che tentiamo percorra un cammino certamente tecnico, in cui si innesca comunque un mestiere e una pratica acquisita in decenni di lavoro. Inevitabilmente.

E’ però questo, di sicuro, anche un cammino e un moto privato e sentimentale, perché il vino grande scuote nello stesso tempo la memoria, la sua intermittenza, quello che si avverte nell’animo, la percezione di un’idea, poi quello che sentiamo e ci emoziona come bellezza, come piacere. E dunque l’Harimann evidentemente si avvicina moltissimo al mio personale ideale di vino. Ma, se provo a razionalizzare, i suoi profumi e sapori mi piacciono perché avverto in essi un’estrema profondità che si va ad unire ad una vastissima ampiezza. E’ lo sviluppo di questa unione, l’apertura totale degli estremi, questa simbiosi suprema dei suoi picchi a colpirmi, qualcosa che è difficilissimo possedere in una sintesi così armonica.

L’assaggio delle ultime due annate offre appunto due Harimann superbi, cui dò lo stesso punteggio, con l’avvertenza però che la 2007 ha un guizzo di energia in più, rivelando margini di ulteriore crescita, qualcosa potrà ancora scalare nel punteggio, con spigoli acidi e tannici da smussare ed altri possibili picchi evolutivi da esprimere. Non è insomma ancora pronto. Ma occorre anche dire che questo 2007 lo avevo assaggiato in anteprima 2 anni or sono e gli avevo dato un punteggio inferiore al 2006, proprio perché era troppo crudo e scomposto e quindi non ancora in grado di esprimersi, di dire e di dare. Oggi però che è in commercio, e che ha trascorso altri 24 mesi di bottiglia, il risultato cambia.

Racconto così dell’impressione solenne nell’osservare il suo colore impenetrabile, tra il viola ed il nero, mentre scivolava nel calice. E dell’intensità vasta, superba di un naso ancora in costruzione che saliva immediatamente nell’aria, mentre lo versavo, quei suoi aromi, lo spettro larghissimo in cui si concentravano i frutti di more inchiostrate con balsami, spezie, goudron.

Tutto era potentemente concentrato, grasso e nello stesso tempo valicabile, godibile, pieno di splendore. Perché nel carattere dell’Harimann (ovviamente trascorsi i necessari anni, affinché si componga armoniosamente e ogni tassello espressivo si assesti nel suo spazio) c’è questa apertura, questo manifestarsi radioso, lunghissimo. Vino, ripeto, con ampi spazi di crescita ai profumi, ma con una bocca che è spettacolare già oggi, dolce, inchiostrata, tannica, su cui tracima un frutto grasso di incontaminato splendore ed incredibile suggestione. A suo modo, è appunto un rosso straordinariamente profondo, ma che sa accennare al sorriso, alla luce, con una lunga intelaiatura di goudron che lo avvolge e lo mantiene solenne, complesso, estremamente solido, eppure calmo e vasto. A suo modo, sereno.

Assai similare è poi il quadro espressivo nella 2006, appena più matura e con un filo di energia futura probabilmente in meno. E’ però un rosso assoluto aperto all’oggi, a come siamo ora, morbido, denso, fluttuante di frutti e polpe preziose, con un corpo dichiarato, esposto, da godere e masticare, giunto in una sorta di primo apice nel quale rimarrà a lungo, carico di potenza grassa godibilissima e saporosa, che avvolge di creme e cioccolate l’energia inchiostrata e vibrante dei suoi meravigliosi tannini. Gran vino superbamente chiaroscurato, ripeto, con un’impronta caravaggesca, dalle proporzioni vaste, maiuscole. Risultato, penso a volte, di una sfida estrema, a rappresentare quel punto-limite che mi attrae.

Infine di ragguardevole bellezza, gustosità ed intensità al palato il Testarossa 2011, secondo Montepulciano di Pescosansonesco, solo meno esasperato nei tempi di raccolta. E dunque potente e lineare (qualcuno potrebbe dire meno esagerato ed io non so se lo perdonerei), rosso molto ben calibrato, che, a differenza del fratello maggiore che vive di eccezionalità, percorre una sua quotidianità altissima e felice. Ed anche lui, in tutte le vendemmie che ho assaggiato, non ha mai rivelato cedimenti o smagliature, sempre calibratissimo e centrato, pieno di sapori, che si apre e si manifesta, ovviamente in anticipo rispetto all’Harimann, con un intrigante brillìo di frutti rossi e neri su bello sfondo di tabacco e spezie. Definirlo un secondo vino sembra quasi una follia.

Dell’Harimann 2002 parlo alla fine di questa scheda, perché è un vino che ho scovato appena qualche giorno fa (per caso, rivoltando la cantina alla ricerca di altri Montepulciano). Ed è stato come un segno. Un assaggio meraviglioso (e non sorprendente) a concludere in bellezza tutti questi mesi di lavoro. La scheda era appunto già scritta e non ho voluto modificarla, ma solo aggiungere questo ultimo tratto del cammino, come una postilla.

Devo dire che l’Harimann 2002 lo avevo assaggiato l’ultima volta in una cena del 31 dicembre. L’anno era il 2009. Avevo radunato etichette che mi erano sempre piaciute, anche diversi vini del cuore, per una cena con amici cari a salutare un nuovo anno che si affacciava, nella speranza che, per una volta, fosse magnanimo e generoso con tutti noi (ci si prova sempre, ma poi …).

Comunque era l’unico Montepulciano accanto a diversi Brunelli e uvaggi bordolesi italiani, blasonati e carissimi. E ricordo che l’Harimann li strapazzò, così, in surplace, senza colpo ferire. Io sorridevo nel guardare il vino e nel berlo. Era decisamente il più buono e lo era anche per tutti i presenti. Probabilmente non mi aspettavo un risultato così netto, che in un certo senso diventava una lezione anche per me. Un Montepulciano che con quella sicurezza spaziava, si innalzava. C’era qualcosa che dovevo fare per questo vitigno.

Mi veniva da pensare che, se fosse stato un vino californiano o dell’Oregon, la stampa americana lo avrebbe reso un mito, con un profluvio di articoli e celebrazioni, costruendoci su poi monumenti, altari. Mentre dell’Harimann in casa nostra quali magnifiche penne e progressive si erano mai mosse?

Comunque, mentre ritrovavo questa annata dopo più di 6 anni e salivo in casa, ho pensato “Chissà? Avrà resistito?”. La 2002 non era stata affatto male per loro, d’accordo, ma non è certamente nemmeno stata la migliore annata di Harimann. E insomma qualche remora me la portavo dentro.

Poi ho aperto, ho stappato. Ed è sceso nel calice un colore meraviglioso ed impenetrabile (l’ennesima conferma della longevità imparagonabile di un grande Montepulciano), mentre saliva uno straordinario profumo di frutti e creme, pieno di intensità. E poi balsami, fumi, menta, eucaliptus. Era un vino grandissimo ed ancora assai giovane, ma tutto appariva depurato da ogni peso e pienamente assestato, sereno, rilassato, elegantissimo. Mi trovavo davanti un’esposizione di bellezza e potenza, di soavità ed energia. La morbidezza delle creme, la loro densità armoniosa avevano il portamento solenne e l’eleganza di una regina. La dolcezza nobile dei sapori era di una bontà struggente. Tutto quel vino mi sembrava una lezione di eleganza, che esiste e c’è nel Montepulciano sontuoso, maturo, l’armonia che non si misura mai nella taglia, ma che è tutta invece negli equilibri delle forme, nel gusto superiore, nella creatività, nella qualità dello stile, nel portamento. Avere così classe, grazia, uno stacco, un ordine supremo. Diventando allora una spallata alla pochezza, ai luoghi comuni del Montepulciano è un vinone rozzo, agli ipocriti, ai poveri di spirito, ai farisei, ai non puri di cuore.

Terra d’Aligi

Tolos 2009       91-92

Tolos 2008       94

Tolos 2007       92

Tolos 2006       93-94

Tolos 2005       90

Tolos 2004       92-93

La prima volta che ho assaggiato il Tolos (era al suo esordio, anche lui con la vendemmia 2000) ero consapevole di provare certamente una forte curiosità sentimentale, perché la vigna in cui nasce è nel territorio di Atessa. Ed è dunque, tra tutti i vini che racconto in questo lavoro, il più vicino geograficamente a Villa Santa Maria. Ma più verso il mare, dove la Val di Sangro si apre e comincia a distendersi nella piana che porta all’Adriatico.

Ero curioso, ma anche dubbioso in quella degustazione, perché la mia memoria dei lontani vini di Villa era ferma, come ho raccontato, su sensazioni non troppo positive. Ma c’è da dire che il territorio di Atessa è completamente diverso, diversa la solarità, la collocazione, la composizione dei suoi terreni, l’altitudine.

Poi mi aveva anche lasciato pensare un dialogo di alcuni anni prima con un produttore di Brunello, che, quando aveva saputo che ero originario di Villa, mi aveva detto che conosceva bene quel territorio e che lo aveva preso seriamente in considerazione con alcuni soci, tempo prima, per un grosso investimento vitivinicolo. Si riferiva proprio all’area sopra Villa, dunque sul versante sinistro del fiume Sangro, che per la tipologia dei suoli, microclima, esposizione ed anche una giusta altitudine era, a suo avviso, un territorio adattissimo a far nascere del grande Pinot Nero. Era stato però impossibile compattare l’acquisto in un corpo uniforme di diverse decine di ettari, tanto questi terreni erano polverizzati tra una miriade di proprietari ed eredi, sparsi e ormai irrintracciabili da generazioni su tutti i continenti della terra.

Avevano allora, pur a malincuore, dovuto desistere. Il progetto non era decollato. Ed io ero rimasto lì a riflettere … Il Pinot Nero a Villa. Però … Era come se mi si illuminasse la mente, con le miriadi di possibilità di questa nostra penisola, così incredibilmente diversificata, ma anche intentata, sconosciuta.

In effetti quanti siti potrebbero diventare terre famose per nuovi vini sorprendenti, impiantando vitigni diversi, là dove quelli storici non danno il meglio, quanti filari in territori adesso totalmente abbandonati, quanto lavoro potrebbe nascere, quanta fantasia potrebbe esprimersi … E quell’immagine dantesca che mi si riaffaccia spesso in mente, l’Italia come giardino dell’Impero, profetizzato, come la vocazione ad un destino migliore, più di 700 anni fa.

Tornando al Tolos, l’ho seguito così per diversi anni dopo il suo esordio fino alla vendemmia 2003. Sono andato a rileggermi le recensioni che avevo scritto su Repubblica. Gli avevo dato ottimi punteggi. Era un vino che mi colpiva per la forza, il carattere virile, un particolare ventaglio olfattivo che sfumava nel cacao, venandosi di un primo sentore di tartufo e goudron. Erano vini possenti, di grande spettro, che meritavano sicuramente più tempo di vetro.

Poi il Tolos lo avevo perso di vista, senza che ce ne fosse motivo. Perché non mi ero più fatto vivo con i suoi produttori?

Casualmente, proprio mentre cercavo nell’archivio del computer, ho fatto poi caso alla data di quella mia ultima recensione, il 2006. E’ stato l’anno della morte di mio padre.

Mi rendo conto, può sembrare tutto molto strano, anche in un’ottica di serietà professionale. Però il mio mestiere, questo mettersi ad assaggiare ed analizzare vini, l’ho sempre vissuto attraversando contemporaneamente gli umori e le passioni della mia esistenza. E Villa da quel giorno e da quell’avvenimento io l’ho davvero rimossa e per un lungo numero di anni. C’era troppo dolore.

Dentro questo paese, tra le sue case, da allora, sono dovuto tornare solo per altri morti, altri funerali, altri seppellimenti nel suo cimitero che guarda il Sangro. E tutto in un giorno, partendo da Roma e ritornando subito. Senza mai volermi fermare lì a dormire.

Ora è un tentativo di autoanalisi sommario e dilettantesco quello che sto provando. Però tutto quello che aveva a che fare con Villa, per diversi anni, ho cercato di scansarlo, allontanandomene velocemente. Il Tolos, totalmente incolpevole di tutto questo, lo collocavo in un’orbita di Villa, con i suoi ricordi, i suoi paesaggi. E così l’ho perso di vista. Non l’ho più cercato, immergendomi di fatto tra migliaia di altri vini.

Ma con il tempo, come è giusto che sia, i fantasmi passano. Oppure è forse più giusto dire che tornano a sorridere da capo, come quando erano vivi accanto a noi. E una volta che ho deciso di fare questo lavoro sul Montepulciano, il Tolos era tra quelli che più mi avevano convinto negli anni passati.

Mi sono rifatto allora vivo e ho avuto così la possibilità di una verticale su tutte le vendemmie uscite nel frattempo, dal 2004 al 2009, che mi ero perduto in quei miei anni. Mentre questi vini erano intanto potuti crescere ed evolversi nel vetro, avevano percorso il loro cammino durante il medesimo tempo, indifferenti, come è giusto che sia, alle gioie e ai dolori che erano accadute agli umani. Pronti però, all’occasione, a distillare il loro conforto, ad esprimere la loro bellezza.

Non assaggiavo più così (se non nel caso del 2009) un Tolos appena immesso in commercio, ma tutta una serie di vini in un magnifico livello di espressività, dopo lunghi anni di affinamento e da una vigna che era cresciuta di età.

E’ stata davvero una verticale sontuosa, con vini molto più sfaccettati e complessi di quanto non ricordassi (ma ogni prima vendemmia è un’esperienza che si trasferisce poi su tutte le altre successive) e la sorpresa di un grandissimo Tolos 2008, che mi ha lasciato di stucco, ad esprimere la personalità perentoria di un sito eletto. Siamo dunque in località Forca di Lupo, sui 250 metri di altitudine, selezione da 5 ettari di vigneto a Montepulciano di 25 anni di età, allevato a guyot con 4000 ceppi per ettaro, vendemmie nella seconda metà di ottobre, fermentazioni sulle bucce intorno alle 2 settimane, 1 anno di vasca, poi elevamento in barrique per 24 mesi.Forca di Lupo filari 2

Si parte allora con il Tolos 2009, magnificamente impenetrabile al colore, che (va da sé) è il campione più crudo, il più bisognoso di altro tempo di vetro. Le note di frutto nero e tartufo già aleggiano sui primi precursori balsamici. Ma è un vino che terrei in cantina per almeno un altro paio di anni. Lo lascerei insomma tranquillo ad elaborare tutto il suo mondo di profumi, prima di ritentarlo. E mi gusterei intanto la spettacolare espressività del Tolos 2008, da una vendemmia bellissima e matura, uno dei grandi assaggi di tutto questo lavoro, in cui si esprime totalmente il carattere di questa vigna con un Montepulciano possente e maschio dalla perentoria bordata di profumi tartufati intrisi di inchiostro, more e frutti neri di bosco che ti assalgono al primo colpo. E poi si aprono alla menta, al cacao, alle spezie dolci ed inviano l’esplicito messaggio del rosso di grandissima razza, aristocratico, fiero, virile e al tempo stesso potentemente armonico.

La bocca è poi stratosferica, profonda, complessa, piena di spazi, con un frutto sontuoso che si apre a deliziosità balsamiche su uno sfondo di liquirizie, goudron e dolcezze tartufate. Rosso completo, assoluto, straripante, roccioso, rabbioso eppure possentemente equilibrato, che lascia un’infinita bellezza tra le labbra.

Il Tolos 2007, pur in un grande quadro di complessità, ha qualche spigolo più acido e verde, appare in qualche misura più sigillato ed imbrigliato, ma è anche frutto, a mio avviso, di una maturazione meno completa delle sue uve, pagando così dazio davanti alla sfericità del 2008.

Questo vino torna poi al pieno del suo splendore con la 2006. E se c’è una lezione che ho tratto da questa verticale è che il Tolos davvero grande si ottenga con vendemmie che si protraggono, spingendosi in là nei tempi di raccolta delle uve, anche correndo dei rischi. Il suo naso per essere al meglio, come in questa annata, deve esprimere la piena sensazione di frutti maturi, con note di mirtilli, sottobosco, leggero sfondo ematico e poi tanto tartufo bianco, humus, goudron, infine cioccolata. E’ un vino un po’ più avanti nell’espressività rispetto al 2008, possiede appena meno energia, ma è un vero gioiello di cremosità e dolcezza, con una beva di assoluto piacere.

La 2005 è poi apparsa nel confronto come l’annata più debole, giunta all’apice, direi anzi che il suo punto di maggior forza lo ha già superato. I profumi esprimono molto inchiostro, china, sottobosco, poi spezie officinali, alloro. Bocca un po’ astringente, più acuta ed acida, meno ricca di carne.

Il Tolos 2004 infine è il campione che ha voluto più tempo nel bicchiere per iniziare ad esprimersi, rimaneva lì con il suo incredibile colore dall’impenetrabilità nerastra. E dopo un’ora ha cominciato a crescere vistosamente in una sontuosità grassa di frutti neri maturi che andavano verso il sottobosco, la pelliccia, il goudron. Vino molto folto poi ai sapori, di una dolcezza carnosa e dalla vellutata rotondità.

Etichetta attentamente da seguire nelle prossime vendemmie.

Agriverde

Plateo 2009      93-94

Plateo 2008      90-91

Plateo 2007      94

Plateo 2004      94

Solaréa 2011     91

Per come ho vissuto tutto il rapporto con il Montepulciano e ne ho percorso poi la sua evoluzione negli ultimi 20 anni, il Plateo ha svolto un ruolo fondamentale ed è stato il primo a convincermi davvero sulla capacità e possibilità del vitigno a creare un grandissimo rosso moderno. Non e non solo insomma un Montepulciano potente, materico, di peso, ma un vino che saliva, cresceva, perdeva zavorra e si impossessava contemporaneamente di spazi estetici più alti, li riempiva ed estendeva fortemente il proprio diapason aromatico, manifestando un ventaglio assai più ricco, articolato e una qualità piena di sfaccettature inedite. Come se sollevasse di fatto il corredo dei profumi e la loro armonia ad un’altezza insolita, sprigionando così sapori di una intensità, un gusto ed una bellezza che non avevo mai sentito, sfidando nello stesso tempo gli altri vitigni, non solo italiani, con un patrimonio finalmente più esteso, vasto e complesso.

In qualche misura il Plateo ha fatto scoccare dentro di me una sorta di scintilla cognitiva. Dentro il Montepulciano c’erano cose straordinarie, tutte da indagare e saper estrarre con un diverso tragitto di vigna e di cantina, come poi le altre etichette che sono apparse negli anni successivi hanno pienamente confermato.

Ricordo (eravamo nella seconda metà degli anni ’90), nella settimana di vacanza che trascorrevo a Villa nella prima metà di agosto, quella serena ora di macchina fino ad Ortona.

Quando di infilata ne intravedevo il colore della spiaggia, mi veniva da pensare ogni volta, quasi in un rimbalzo improvviso del tempo e dello spazio, come lì, in quello stesso mare, mia madre e le sorelle andassero d’estate, quando erano bambine.

Poi, arrivato nella nuova cantina di questa azienda, iniziavano gli assaggi da tutte le barrique e saliva la finezza espressiva di queste vigne. Assaggi appunto illuminanti, che mi facevano capire il carattere del Montepulciano che andava crescendo nella campagna rigogliosa all’interno di Ortona. Un vecchio impianto a tendone, cui si andava progressivamente ad aggiungere il risultato di una vicina vigna più giovane, assai più fitta, allevata a cordone speronato, che ha oggi 25 anni. 491

Si andava allora mettendo a punto tutta la dinamica del vino, con uve che venivano raccolte nella seconda metà di ottobre. Il mosto fermentava sulle proprie bucce intorno ai 15 giorni. E per un anno il vino riposava in vasche inox, prima di essere posto in barrique per 18-24 mesi.

Parliamo di un rosso tanto straordinario, quanto poco conosciuto in Italia, come quasi tutte le altre etichette che racconto in questo lavoro (ed è uno dei grandi misteri su cui mi interrogo, quando leggo di vini banali e scontati che vengono ripetutamente pluripremiati e che tutti si rimpallano beati e beoti, come in uno stolido mantra. Mi pare un altro segno manifesto di quanta mediocrità e conformismo, quanta sudditanza attraversi da sempre il nostro paese, quanti scopritori d’acqua calda, che poi non è nemmeno calda, impazzino sulla carta stampata e nel web. Va bé, adesso basta però, … pietà).

Dicevo allora, vino di grande corpo e bellezza, dai volumi solari, luminosi. Ho ancora in mente la prima vendemmia, 1995, poi la crescita esponenziale della ’97 e un’opulenta, sontuosa versione ’98, dove per la prima volta avvertivo decisamente nel Plateo una costante, golosa nota di cioccolata che lo pervadeva, ineffabile, serena come nel sorriso di un Budda, preziosissima.

Allora, se vogliamo dare un’idea di cosa sia questo vino, immaginatelo come un grande Montepulciano impregnato di sole, caldo, generoso. Ma il tutto su queste colline è sempre mitigato dai venti, dalle correnti e dal fresco notturno che viene dal mare di Ortona. Maturazione così lenta e piena dei frutti, in una campagna che in questi anni è stata guidata dall’azienda sempre più secondo i principi dell’ecosostenibilità e del biologico.

C’è un ulteriore elemento però che voglio sottolineare ed è nella superba bellezza della sua fattura. Nel Plateo c’è una sapienza compositiva, una mano che è tanto felice, quasi da non lasciarsi avvertire. Ed è un po’ il segreto delle cose belle. In un quadro sublime c’è l’incantesimo della figura oppure della forma, del colore ritratto, espresso. Il lavoro, il pensiero e la fatica di chi lo ha dipinto non si deve vedere, quanto più l’opera è riuscita.

Rosso dunque di particolare compattezza, di massa profonda ed al tempo stesso di straordinaria, morbida bellezza, dalle proporzioni perfette, euritmico, dalle movenze di carni formose in un vasto impatto rinascimentale. Solare, dicevamo, mediterraneo, splendidamente cremoso, ma senza mai niente di sovrammaturo. Il suo colore è impenetrabile, il frutto è concentrato, inchiostrato e carico assieme di preziosità dolci, lunghe, vibranti, tanto da risultare ricchissimo, potente, ma anche quanto mai raffinato e delizioso, nel gusto elegantissimo di tutte le sue articolate variazioni.

Posso dire che con un po’ di emozione ho aperto le bottiglie della piccola verticale (era un vino che nelle mie varie altalenanze di lavoro non assaggiavo di fatto da un 3-4 anni), iniziando dalla 2009, ultima ad essere posta in commercio, poi la 2008, 2007, 2004. E la sensazione nell’annusare, pur in un quadro compositivo molto complesso e che nelle ultime annate (così come sono cresciute le piante ed è maggiore l’esperienza di cantina) è divenuto sempre più virile, intenso e profondo (le primissime le ricordavo più leggere e femminine), è stata quella di un grande rosso sferico, sontuoso, dalla felice serenità, cui appunto non manca l’accenno del sorriso e dunque della godibilità, della approcciabilità.

Parliamo certo di una godibilità e di una gradevolezza importante, piena di movimento, echi, suggestioni e variazioni. Ma è un elemento questo che trovo determinante nell’accostarsi al grande vino. Un eccesso cerebrale di tannini sul frutto crea inevitabilmente uno squilibrio che segnerà per sempre quel rosso, rendendolo nei fatti arido, triste, vecchio. Nel Plateo invece c’è questo rigoglio controllato di frutto, questa impronta di gioventù e la sua radiosità felice all’interno di una impalcatura assai ricca e dunque complessa, vastissima di essenze.

La 2009 è ancora aggressiva al naso, un po’ cruda, ma già con un imperativo frutto di more di rovo che si apre ai primi accenni di tartufo bianco, poi inchiostro e cacao. Come sempre nel grande Montepulciano, se il naso è ancora in costruzione, quasi in cerca del suo allineamento perfetto, la bocca invece risponde già con estrema fascinosità e bellezza, tanto è potente e cremosa, generosamente e serenamente autentica, in un dolce brillìo di sapori. Vino che ha ora solo bisogno di altro vetro, con un pelo leggero di tannini da smussare, levigare. E dunque da collezionare, su cui saper attendere almeno un altro paio di anni.

La 2008 ci offre invece un Plateo di fatto più piccolo, sicuramente agile e più pronto. Possiede il bagaglio aromatico del vino ed evidenzia maggiormente la sua nota ematica, poi quella di cacao in un complesso di freschezza speziata, balsamica, con una dolce masticabilità al palato. E’ vino che comunque berrei, non mi sembra che possa crescere ancora.

Con il Plateo 2007 abbiamo invece una delle migliori performance di questo intero lavoro, vino di una bellezza poderosa, impenetrabile al colore, con profumi fortemente inchiostrati, fitti, densi, profondi, eppure con una loro potenza calma, classicheggiante. Bocca poi di eccezionale intensità, ma anche con una rigorosità e un controllo che gli dona un’eleganza superba. Ed è un gran vino che amo molto, perché ha ancora spazio da percorrere, racconti da dare, intarsi, luci e aromi da accendere, che insomma possiede in sé altro futuro. Le sue volumetrie hanno un sommo respiro, le sue essenze possiedono brillantezza, gustosità, incisione, giovinezza. E’ un grande rosso anche di superba precisione (e qui ritorna la sicura mano tecnica) e nello stesso tempo di forte passionalità, con i crismi completi della creazione felice.

Il 2004 è poi un altro grande assaggio, medesimo il punteggio che gli ho dato, ma in questo caso parlerei di un magnifico vino già intorno al suo apice (il 2007 invece tra 1-2 anni potrebbe ancora guadagnare qualcosa). Ed in questo senso, tra tutti quanti i Plateo di questa miniverticale, consiglierei ad un ipotetico lettore di bere appunto questa annata, per avere e vedere il quadro completo, intero del vino, con le sue caratteristiche espressive, il suo mondo.

Quadro tuttavia, è bene tenerlo a mente, non esaustivo per le vendemmie future, perché ritengo che ogni grande etichetta italiana abbia una storia talmente breve alle proprie spalle, da possedere dentro e davanti a sé ancora un lungo cammino espansivo di variazioni, spazi, dunque un grosso, ulteriore margine di approfondimenti da raggiungere e dare. Ed è questo il bello e lo straordinario dei nostri migliori vini, che, se la conduzione sarà altrettanto seria, tra 15-20 anni saranno sicuramente migliori, più profondi, più tersi (anche se io allora … , però …).

Comunque, per riprendersi da foschi pensieri e dimenticare gli scherzi biechi ed inesorabili del tempo, suggerisco di non trascurare minimamente il Solarèa, che, per dirla in modo chiaro, ritengo il miglior secondo vino che conosco tra i Montepulciano d’Abruzzo.

La vendemmia 2011 ci ha dato un esito folgorante. Colore profondissimo, frutto di incredibile integrità e purezza con note soavi di more, vaniglie, tartufo bianco, goudron. Rosso più femmineo e sorridente del Plateo, in fondo più disponibile e pronto, con una bocca magistrale, armoniosa, estremamente masticabile e con tannini setosi, dolci che si aprono ad una lunga venatura inchiostrata. Consistenza importante infine, deliziosamente speziata, che lascia tra le labbra una sensazione di puro, dolce velluto. E la conferma ulteriore di un sito straordinariamente felice.

San Lorenzo 

Escòl 2010    93

Escòl 2009    92

Escòl 2008    93

Escòl 2006    91-92

Escòl 2005    93

Oinos  2011  89-90

Oinos 2010   90

L’Escòl è un altro di quei meravigliosi Montepulciano che ho sentito sin dalla sua nascita, in quella vendemmia 2000 in cui si andavano gettando le basi per la DOCG Colline Teramane (a cercare anche di zonizzare la grande macroarea dell’Abruzzo). Nasce dal vigneto Querce Grosse impiantato 35 anni fa a tendone, con una relativa buona fittezza di 2800 ceppi per ettaro. Siamo nell’areale di Castilenti, a 280 metri di altitudine, con in fondo la lontana striscia azzurra dell’Adriatico ed alle spalle lo skyline roccioso del Gran Sasso. SONY DSC

Colpo d’occhio spettacolare dunque, ma questo l’ho scoperto dopo, in un ormai lontano pellegrinaggio, quando il vino già lo conoscevo e mi aveva stupito ogni volta con la sua fascinosa, elegante riconoscibilità. Perché tra tutti i Montepulciano d’Abruzzo importanti l’Escòl è quello con il più alto gradiente di piacevolezza colta, di eleganza raffinata. E’ un vino (30 giorni di macerazione sulle bucce, poi 24 mesi in tonneaux nuovi, a completare le informazioni tecniche) che ha crema, gentilezza, una suprema bontà di aromi e un sorriso non offuscato da alcuna preoccupazione o cupezza. Una sorta di La Tache del Montepulciano, solare, intenso e femmineo, di forme morbide e dolci. E’ un gran rosso consolatorio, approcciabile, gustosissimo e pieno, assai profondo nel colore, magistralmente interpretato in una incantatoria fusione tra vaniglie dei legni, frutto e lampi dolci di goudron, che lo rendono straordinariamente intrigante.

Devo ammettere che lo avevo perso di vista per qualche anno e ritrovarlo ora in una lunga verticale con annate anche recuperate dentro la mia casa (dove ogni spazio possibile è occupato, in un apparente disordine, da meravigliose e rare bottiglie) è stato un piacere immenso ed una conferma. Forse gli manca quel pizzico di concentrazione e rabbia per essere il mio vino assoluto, ma è anche vero (ne sono consapevole) che a me piace (qualche simpaticone dice l’esagerazione) di certo l’espressione del punto-limite, la frontiera da valicare.

Nell’Escòl prevale invece l’ordine gentile, una soave disciplina, che tiene tutto in armonia con una vellutata sintesi di forme e di equilibri. E’ di fatto il Montepulciano più elegante che io conosca, dalla fine, cremosa morbidezza. E la configurazione dei terreni e tutto il loro complesso microclimatico rendono questo Montepulciano già approcciabile intorno al 5°-6° anno, perché è un vino che nasce in notevole equilibrio, aggraziato dal sole e dalle brezze, che tutto arrotondano in una sublime dolcezza mediterranea.

Mi è piaciuto molto il 2010, un bellissimo rosso di creme e goudron, un naso molto vasto, pieno di suggestioni e insieme di grande soavità (la dolcezza e la soavità, come dicevo, nonostante la sostanziosa ricchezza di peso, sono i suoi elementi portanti), carezzevole e potente, con i frutti neri vanigliati che virano nel sottobosco, nei funghi e si aprono poi man mano, con il passare dei minuti, verso la menta, i balsami, il fumo, le spezie, la cioccolata, i chicchi di caffè. E tutto sempre in un estremo senso di dolcezza alla bocca.

Nei miei appunti però (l’ho già raccontato in un altro articolo, difficilmente scrivo di getto, il giorno dopo l’assaggio. Il vino importante, con tutte le sue impressioni, me lo devo portare dentro per qualche tempo, metabolizzarlo. E passare alla scrittura poi, quando sento il momento e provando a trovare la chiave di racconto), vedo scritto accanto al 93 del punteggio, “Ma forse si può fare di più”.

E adesso dunque discorso esplicativo. Mi rendo certamente conto che 93 è una valutazione altissima, che non dò quasi mai. Però l’impressione che mi ha lasciato questo grande vino (e non so se è un auspicio) è che con un pizzico, non so, di concentrazione, di profondità, di rabbia, come dire, di ribellione in più (ma anche, prosaicamente, di selezione più esasperata) l’Escòl potrebbe diventare uno dei 4-5 rossi più buoni d’Italia. C’è una tale felicità espressiva in lui, una specie di armoniosa melodia ad attraversarlo (che è certo anche nella bravura tecnica e dunque nell’uomo), da farmi ritenere però che la sua fortuna perfetta sia soprattutto nel sito, nel rapporto e nella combinazione di terreno-microclima-vitigno. Come, se vogliamo fare un esempio alto, è accaduto per il Masseto. Se si possiede dunque la fortuna di avere tra le mani una combinazione tale, si può e si deve, a mio avviso, arrivare al punto estremo, senza mezze misure e senza fermarsi mai. Tentare insomma tutta quella che è la possibile espressività del vino, ritengo sia un obbligo in qualche misura anche morale, oltre che, ovviamente, estetico.

E dunque la butto lì. Staremo a vedere.

La verticale ha visto poi tutti Escòl importanti, in una sarabanda e in una fantasia di magnifici profumi. Con un 2009 solo più crudo, con un filo anche di carne in meno rispetto alla 2010, a mio avviso un pizzico di maturazione dei grappoli meno completa, che dà oggi un pelo di tannini in esubero, che vanno ad inaridire leggermente la pienezza e la rotondità del vino.

Ed è la 2008 che torna poi a darci un Escòl di nuovo sferico, profondo, grasso, carico di energia, con un naso tartufato e complesso, permeato di dolcezze e creme, in un mix come sempre gentile, elegantissimo e generoso. Vino magnifico, da conservare ancora a lungo.

L’Escòl 2006, molto bello ed impenetrabile al colore, era, tra tutti, anche il più statico. In qualche misura mi sembrava all’apice, grasso, maturo, certamente concentrato, ma un po’ fermo, come basso di acidità. Anche il naso appariva abbastanza reticente e terziario, molto su note di humus, poi spezie, alloro, rosmarino. Assai più interessante era la bocca, in cui ritornavano le sensazioni cremose e quella voluttuosità di dolcezza inchiostrata, classica di questo vino.

Splendido infine l’Escòl 2005. Il maggior tempo di bottiglia lo ha meravigliosamente aperto. Il colore, profondissimo, non si è mosso di una tonalità. Ed il naso spazia pieno di eleganze e al tempo stesso vibrante di frutto e di spezie preziose, poi liquirizia. Alla bocca torna questa sensazione di equilibrio denso, di qualità altissima, di una classe superiore, in cui tutte le estensioni gustative sembrano riempirsi, perfettamente collocate in una sublime fittezza di creme dolci.

Ma altamente raccomandabile è anche l’Oinos, che sarebbe la seconda etichetta di Montepulciano. Vino assai particolare per essere di fatto molto simile al fratello maggiore, ripercorrendone in pratica le medesime linee gusto-olfattive. Ed è impressionante la riconoscibilità in fondo del sito, del territorio, perché, una volta versato il vino nel calice, sono andato istintivamente a controllare l’etichetta, nel timore di essermi sbagliato ed aver stappato per errore un Escol.

Sostanzialmente lo ricorda appunto molto, solo è come di un paio di misure più piccolo e più pronto, ma con una grande aria di famiglia, con similari note di frutto e con quel filo di inchiostro e di speziato espresso su tempi appena anticipati.

Tra le due vendemmie assaggiate, 2011 e la 2010, preferisco la seconda per quel guizzo di corpo in più dentro un quadro olfattivo di bella, felice complessità. Con l’avvertenza però di aprire il vino e lasciarlo ossigenare per almeno un’ora, dandogli modo così di comporre tutto il vasto ventaglio dei suoi profumi.

Illuminati

Pieluni 2010    92

Pieluni 2008    91-92

Pieluni 2007    93-94

Pieluni 2003    92

Tutto questo ventennio di evoluzione del Montepulciano d’Abruzzo trova, a mio avviso, nel Pieluni l’espressione maggiormente proiettata verso la modernità. E questo perché il suo progetto nasce e parte dall’impostazione di una nuova vigna, messa a dimora nei primi anni ’90, con 6.000 ceppi per ettaro e allevata a cordone speronato. Naturali basse rese delle piante per arrivare così ad un’uva di superiore livello organolettico, di altra massa e contenuto, tentando di giungere alle frontiere estreme del Montepulciano.

Un’innovazione dunque e un investimento importante, cui hanno lavorato in quegli anni diverse intelligenze per delineare (credo anche sulla spinta di tutto quello che di innovativo andava allora muovendosi nei migliori territori italiani) un rosso di nuova generazione, che, ritengo, dovesse dare un forte segnale di cosa e quanto potesse esprimere sul Montepulciano la magnifica campagna di Controguerra, con i suoi suoli, le ondulazioni dei suoi crinali, tra i 250 ed i 300 metri di altitudine, a pochi chilometri dal mare, su cui scorrono continue correnti ventilate. Paesaggio con vigneti vista sud sud ovest Gran Sasso

Dopo alcune annate di prova, da questa vigna appunto ancora giovane, la prima vendemmia ad essere stata imbottigliata come Pieluni è stata anche qui la 2000, quella che presentava le stimmate superiori ed ha avuto dunque l’ok aziendale per il decollo dell’etichetta.

Ricordo il forte impatto che ne ebbi. Eravamo a metà del 2004. Il vino mi sembrava una delle più entusiasmanti e generose nuove etichette. Un Montepulciano con piante a quelle fittezze, tenendo basse le rese, dava un eccezionale vino dall’imponente estratto, concentratissimo, dai sontuosi, grassi volumi, anche con un rispettabile livello alcolico (15 gradi magnificamente portati). La sapienza delle vinificazioni poi gli dava una superiore bellezza, nitore, gustosità.

Lo recensii nel settembre di quell’anno con una valutazione altissima. Era certamente il frutto di piante ancora giovani, che tendono in fondo a dare un po’ tutto e subito. Non era forse un vino, come sempre in questi casi, da conservare esageratamente (le piante giovani sono come degli scattisti, ridondano di un frutto che è bene godere in un arco ragionevole di anni). Ma nel contesto di quegli anni e dei vini che c’erano in giro mi sembrava ed era un Montepulciano straordinario, opulento, traboccante di aromi, che si andava ad incastrare, con altre prime gemme e con i loro decisi paletti estetici, dentro un panorama abruzzese rimasto nel complesso abbastanza fermo e statico per decenni.

Inutile dire come tutte le cose innovative siano però anche scomode, perché mettono in discussione dogmi, alterano equilibri, tradizioni, interessi. E il mondo del vino ne è inevitabilmente impregnato. Così le valutazioni che hanno avuto tutti questi nuovi vini, a mio avviso assolutamente non congrue al loro valore, i premi e i riconoscimenti che finivano per andare spessissimo ai secondi vini aziendali (che hanno un numero di bottiglie molto superiore a queste etichette e che sono ovviamente molto più facili da realizzarsi), credo abbiano generato solo confusione nel pubblico, hanno seminato parecchi dubbi nei produttori, invitandoli di fatto ad abbassare l’asticella della qualità, del rigore, delle rese in vigna, creando poi inevitabili ritardi per quella che doveva essere da allora in poi una superiore, continua evoluzione sia dei vini, che dei produttori, dei territori, dei consumatori.

Ma di tutto questo vorrei parlare alla fine dell’articolo, perché è un tema ed un argomento che riguarda ognuna delle grandi etichette che sono state protagoniste di questo mio lavoro e direttamente l’intero vino abruzzese.

Tornando così al Pieluni, le sue vendemmie sono avvenute ogni volta nell’ultima decade di ottobre. E poi in cantina le macerazioni delle bucce sul mosto si sono assestate intorno ai 16-18 giorni, con successivi 24 mesi di elevamento in barrique.

Vino allora che valutiamo oggi sulla base degli assaggi della 2010 (ultima ad essere messa in commercio), poi 2008, 2007, 2003. Con la vigna che è dunque cresciuta inevitabilmente. E obbligatoriamente il risultato è così diventato più importante e concentrato. Le uve contengono dentro di sé una materia prima più profonda, più ricca, assai più complessa e dunque con tempi di espressività e di serbevolezza che si vanno a dilatare enormemente nel vino.

E’ stato questo il tema che si è appunto imposto durante l’assaggio. Il Pieluni 2010 non è dunque più quel “tutto e subito” del 2000, ma, certamente tutto, con la necessità però di un tempo molto, molto più lungo.

Cosa esprime allora oggi questo Pieluni, sostanzialmente a 5 anni dalla sua vendemmia?

E’ avvertibile, quasi palpabile la parte di eccezionale ubertosità del suo frutto (quella che scolasticamente viene definita degli aromi secondari), la sua opulenza, una grande nuvola di conturbante giovinezza formosa, dolce, succulenta, anche se in parte ancora cruda e acerba, che avvolge completamente quella zona più complessa e profonda del vino, che ha invece bisogno di molto più tempo per svilupparsi e venire alla luce. E’ un gran rosso poderoso, estremamente ridondante, denso e dolce di succosità e di frutto, che in questo momento però quasi nasconde quella sua metà di aromi complessi, goudroneggianti e catramati che sostanzialmente arriveranno a bilanciare poi questo rosso fino a renderlo completo e grandissimo.

L’impressione provata è che appunto il Pieluni 2010 abbia bisogno di almeno 2-3 anni in più (non poco, lo so) di affinamento in bottiglia, perché possa equilibrarsi ed esprimere così armoniosamente il primo momento del suo ricco potenziale (credo che sia un rosso con davanti a sé tranquillamente altri 15 anni di ottima vita). E comunque, visto che il vino è già in commercio, suggeriamo a chi ha la fortuna di possederlo di saperlo collezionare con cura e goderlo in tempi molto più lontani.

Ora capisco che è facile per me dirlo, ma la straordinaria bontà del risultato comporta poi degli oneri. Ed è un discorso questo che riguarderà molti dei Montepulciano 2011 e 2012 delle prossime schede. Così un più lungo tempo di affinamento in bottiglia, prima della commercializzazione, sembrerebbe doveroso proprio per la valorizzazione di vini così importanti.

Il Pieluni 2008 dimostra sempre la sua grandezza, la sua fascinosità, ma è frutto di una vendemmia più piccola. C’è un filo, un’anima di verde nel suo frutto che, sì, gli dà una nota di freschezza e acidità, ma mi convince una volta di più che il Montepulciano grandissimo deve raggiungere una maturità perfetta nei grappoli. Solo così il suo vino avrà un valore assoluto, totalmente appagante e sferico. Certo, parliamo di sfumature. E’ un vino che preso da solo si può godere largamente. Ma accanto a sé in quel momento aveva il Pieluni 2007, di cui sto per dire. E dunque questo 2008 mi appariva appena meno centrato, con un accenno di vegetalità che lo penalizzava, nonostante la ricchezza radiosa dei profumi.

Pieluni 2007 allora. Una meraviglia. Colore impenetrabile e naso di tracotante suggestione e bellezza (con tutta l’originalità della vigna), che decolla immediatamente con la sua potente base di note catramate, che piano piano si aprono agli aghi di pino, ai toni balsamici, al frutto potente, grasso, lungo, maestoso. Avevo l’impressione di veder scorrere un ampio fiume, lento, solenne, bellissimo di colori e riflessi, che continuava ad aprirsi e fluttuare di aromi e forme. Un naturale contenitore di bellezze.

In bocca si avvertiva una concentrazione rasata, vellutata ed una squisitezza di sapori dal sontuoso equilibrio, con la dolcezza del frutto attraversato da lampi catramati che lo approfondivano e lo complessizzavano, rendendolo davvero grande e bellissimo, di straordinaria consistenza e modalità espressiva, pieno di segreti da svelare.

Il Pieluni 2003 infine è un bellissimo rosso che risente ancora, a mio avviso, di una certa gioventù delle piante. A distanza di 12 anni da quella che è stata una vendemmia caldissima, parliamo oggi di un rosso dal frutto bello, nitido ed assai fresco, attorniato di nocciole. La sensazione tattile è di pieno velluto. Vino di estrema placidità, gradevolissimo e succoso, pieno di equilibrio, di serenità, con quella parte goudroneggiante, più aggressiva e complessa, che caratterizza la vendemmia 2007, che qui invece si affaccia solo in uno sbuffo leggero, sottile, delicato.

La Valentina

Binomio 2011   94

Binomio  2010   92-93

Binomio  2008   94

Binomio  2007   93

Bellovedere 2010     91

Bellovedere 2008     92

Bellovedere 2007     92

Da quando ho conosciuto questa azienda più di 15 anni fa ho provato sempre un grande interesse per le sue proposte di vini, frutto di una visione molto moderna e dinamica, con etichette intriganti, sia di bianchi che ovviamente di rossi. Assaggi insomma ogni volta per nulla scontati, che aggiungevano qualcosa, ricercavano, lasciavano pensare. Ma la molla iniziale di tutto, la particolarità che mi ha molto incuriosito ed attratto è stata offerta dai suoi due cru di Montepulciano, entrambi gran vini di notevole fascino, ma anche poi totalmente diversi per la collocazione delle vigne, composizione dei loro terreni, altitudine, microclima.

Il Binomio è stata appunto la prima etichetta a nascere con la vendemmia 1998 e che, forse non immediatamente, ma a partire dalla 2000 mi ha sempre più convinto sulle possibilità estreme del vitigno, sulle grandi suggestioni che sa offrire, sulla complessità ricca ed opulenta del suo bagaglio aromatico. Sono stato una specie di binomiano della prima ora e posso tranquillamente dire che questo vino ha avuto un ruolo nella mia formazione, nel mio approccio al Montepulciano profondo, importante. Dentro il Binomio ho intravisto cose che poi si sono aperte, diffuse, allargate.

Siamo qui dunque nel territorio di San Valentino in Abruzzo Citeriore, sulle prime falde della Maiella, vigna alta e microclima continentale e ventoso, fondamentale per la sanità delle uve in questi 4 ettari di vigna, impiantata nel 1971 a tendone modificato, con 2.500 ceppi per ettaro di un particolare clone di Montepulciano.La Valentina_BINOMIO vineyard_2016

Le vendemmie, che nei primi anni avvenivano tra gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre, con i cambiamenti climatici in atto si sono ultimamente anticipate di una decina di giorni, ma raccogliendo sempre uve magnificamente mature e con un grado alcolico potenziale intorno ai 15 gradi. Le fermentazioni avvengono in vasche inox, con macerazioni delle bucce intorno ai 20 giorni. Ed il vino poi viene elevato per 15 mesi in barrique.

Montepulciano dunque di grande impalcatura, monumentale, dal carattere austero, solenne, dal colore concentrato e dal formidabile goudron. Vino solenne, serio sin dal suo primo affacciarsi al naso, dai grandi chiaroscuri, dai forti contrasti, che fa venire in mente le tele e quelle immagini rarefatte dell’ultimo Rembrandt.

E’ vero che in questi anni recenti (sarà l’età, che debbo dire?) amo nei vini un certo sorriso, un certo concedersi. Ma il Binomio lo trovo splendido e gli perdono così una sua complessiva cupezza e severità di toni, perché questo rosso mi appare terribilmente autentico, caparbio, tenace, pugnace, sicuramente pieno di valori, ma anche un po’ sulle sue, come questa terra, come la sua gente e come mi sento io. Insomma è un grande rosso, dentro cui avverto cose che mi appartengono.

La vendemmia 2011, l’ultima ad essere uscita in commercio ed a cui un altro po’ di affinamento nel vetro proprio male non faceva, è un’annata superba ed il cui punteggio nel tempo crescerà sicuramente. Mi dà anche l’impressione che, nonostante le procedure di vigna e di cantina siano oramai rodate, ci sia qualche dettaglio, qualche precisione in più. Il vino ha acquisito e raggiunto un superiore gradino. Potrei quasi azzardare che questa sia la sua migliore vendemmia di sempre, ma mi manca una verticale completa, per affermarlo con sicurezza. Quello però che lo pervade e si intravede, nonostante la sua giovinezza ancora un po’ cruda, è un’aria ed un respiro superiore, una maggiore dolcezza dell’insieme, una ricchezza di frutto che rende il vino meno rigoroso e severo. C’è insomma come un’energia moderna ad attraversarlo, una vitalità cremosa tra i suoi strati di grafite, frutti neri, liquirizie, una balsamicità che si spande e lo innalza. Diamogli ora 2-3 anni di bottiglia, solo per assestarsi meglio (di vita da compiere ne ha ancora un’infinità, beato lui) e sarà allora ad esprimersi solo la prima giovinezza di un gran vino superbo.

Il Binomio 2010 è sicuramente più avanti nell’espressività, perché è frutto di un’annata leggermente meno ricca. I profumi appaiono tersi, nitidi e si aprono su una magnifica nota tartufata, netta, potente su cui baluginano i toni goudroneggianti e catramati. E’ un grande rosso già leggibile, approcciabile ed interessantissimo per chi vuole conoscere il Binomio, capire qual è il suo timbro, il suo mondo, perché ne esprime in modo compiuto tutta l’intelaiatura aromatica, virile, profonda, complessa.

La 2008 torna ad essere una grande vendemmia. Rispetto alla 2011 ha il vantaggio dei 3 anni in più di bottiglia e dunque appare già più assestato, più in ordine, più espresso, anche se la 2011, a mio avviso, avrà un picco ancora più alto nel futuro. Ma insomma questo Binomio 2008 è un vero splendore, caldo, denso, generoso, di grande respiro ed intensità. E possiede gli elementi fondamentali per poter essere realmente un grande vino. Ha cioè l’articolazione, il movimento e la vastità dei toni, fatti di mille sfaccettature, che cambiano, si innalzano, fluttuano, quando lasciamo roteare il suo colore nel bicchiere. E si apre così il suo splendore catramato, il suo furore graffiante, un po’ dark, ma nello stesso tempo riempito di creme, di note mentolate, di balsami, in un’espressione di notevole originalità espressiva.

La vendemmia 2007 ne ricalca l’impronta, ma con qualcosa in meno di energia. E’ più pronto, più all’apice. Vino grandissimo (ma accanto a lui c’era la 2008 con qualcosa in più nell’anima, qualcosa che si era elaborata con maggiore compiutezza nella stagione successiva). Dentro i suoi profumi virili, fortemente chiaroscurati c’è tutta l’autenticità ed il lavoro del suo terreno scabro, i suoi sapori conquistati alla vite e la loro essenzialità tesa, la loro misura.

Il Bellovedere poi è l’altro grande Montepulciano che nasce da una vigna impiantata a tendone nel 1976, attorno alla cantina aziendale di Spoltore, a 2.500 ceppi per ettaro  in un’altitudine di 150 metri. Siamo dunque più vicini al mare. Le vendemmie avvengono a metà ottobre, con una macerazione sulle bucce di 25 giorni in tini di legno troncoconici. Poi barrique e tonneaux per 18 mesi. Prima annata prodotta è stata la 2000.

Chiaramente la collocazione, il sito della vigna, la differente altitudine dà luogo ad un Montepulciano diverso, anche se non mancano poi riferimenti al Binomio fatti di idee estetiche, di modi di intendere il vino. La sensazione complessiva è di un Montepulciano meno di chiaroscuri e di contrasti, più morbido e soffuso, più sinuoso e femminino. E a questo aggiungo che il Bellovedere, rispetto alla 2000 ed alle primissime annate, è, secondo me, molto migliorato nel corso delle altre vendemmie, diventando più ricco ed importante, più sicuro.

La 2010 merita sicuramente altro tempo di vetro, ma si presenta con un naso che brunelleggia, graffiante ed intrigante. Colpisce la bellezza moderna dell’interpretazione, i primi strati di goudron che già si affacciano su uno sfondo di sottobosco, bacche, humus. Si avverte molto il volume, la densità carnosa, ma è un vino ancora in piena composizione, che sta elaborando e sviluppando le sue sostanze.

Così è anche qui la 2008 a dare una più aperta, luminosa prova di quello che è il suo mondo espressivo. La nota di tartufo già si affaccia su uno sfondo ematico e carnale. Ritorna la sensazione di sottobosco e tutti gli elementi hanno un tono vellutato, morbido, affusolato. Alla bocca rivela un’intensa piacevolezza e torna la nota di tartufo in una voluminosità voluttuosa e grassa.

Il 2007 si apre su un colore assai profondo ed un naso di more mature su uno sfondo di inchiostri, sottobosco, pelliccia. La bocca bocca poi si apre con un tessuto elegante ed inchiostrato pieno di creme dolci. Non c’è qui il furore del Binomio. L’anima del Bellovedere è più serena, più morbida e conciliante, di femminilità sinuose, soffuse, aggraziate.

Gentile 

Vecchie Vigne 2012        92-93

Vecchie Vigne 2011        91

Vecchie Vigne 2010        89-90

Vecchie Vigne 2009        90-91

Da anni ormai il mio lavoro è fatto di assaggi distanti dalle aziende. Assaggio da solo (lontano dal pettegolio di astanti vicini con il loro raccapricciante sotuttodituttoedancheditutti), in casa (senza gli odori e l’aria estranea di altri ambienti), con i miei bicchieri, avvinati con calma e cura.

E’ uno dei momenti più belli della giornata. Scoprire un vino, versarlo, guardarne il colore, avvicinarlo al naso, alla bocca, in una grande curiosità che si apre e può diventare poi, in qualche caso, un’emozione sorprendente. E’ un vero e proprio atto di conoscenza, il tentativo di una scoperta in cui si aprono interamente i nostri sensi.

Per come l’ho vissuto e lo vivo è come scoprire una storia nuova. Mi capita a volte di pensare (lo dico sinceramente, senza pudori) che abbia molto a che fare con la curiosità e l’aspettativa immensa che avevo da giovane per l’innamoramento, l’attrazione per il viso di una ragazza che mi aveva lasciato senza fiato. Poi, in qualche caso fortunato, giungere a guardarla da vicino, parlarle come se fosse la novità dell’universo, toccarla, essere nel suo odore, sentirmi dentro di lei.

La mia età è diversa ora, ma si è se stessi sempre, anzi il tempo che passa ci affina. In qualche sparuta zona della nostra mente, che ha accumulato tanto passato e memoria, siamo certo affaticati, ma più lucidi. Credo che anche in età avanzata ci accostiamo a quello che ci attrae con la stessa passione, la stessa onestà. Non abbiamo più niente da perdere, né da dimostrare, possiamo solo scoprire e aggiungere qualche buon momento, che non renda inutile il tempo della giornata che ci è trascorsa addosso e già non c’è più.

Se c’è un motivo che mi porta ad assaggiare è che quel vino possa rivelarsi una sorpresa, appunto un sorriso dello spirito. Insomma ne deve valere la pena, deve essere davvero grande.

Si parte così ogni volta da un’iniziale degustazione fredda, tecnica. Colori, tonalità, intensità e poi profumi, loro tipologia, ampiezza, parametri di armonia, approccio ai sapori, acidità, polifenoli, persistenze e lunghezze. In una sequenza memorizzata nel profondo, come per l’attivarsi di un pilota automatico. Ma poi, quando il vino è vero, onesto, reale, scatta la molla, si muove il sentimento, si avverte l’impronta del vino, la sua creatura viva, che dice, racconta, si apre o sta sulle sue.

Le possibilità sono infinite. Non c’è mai un finale unico, scontato. La bellezza è nel panorama che offre oggi il vino italiano, quel suo essere davvero immenso e imprevedibile. Tra territori, vitigni, altitudini, stile degli autori, caratteri.

Ma la mia lontana scuola di Montalcino, quell’assaggiare dalle botti in ogni azienda tutti i vini in gestazione, capire come si evolvono e se e quanto possono crescere, se hanno una misura, un’intensità da Brunello o da Rosso, riverificandoli poi in bottiglia anni dopo, è stata per me una lezione indimenticabile. Sentire il vino passo passo, memorizzare cosa ha dentro di importante, ma anche cosa tante volte gli manca. Riuscire così anche ad azzardare il suo divenire, in quale vigna o cantina ci siano le premesse per un futuro assai importante …

Mi è capitato, sempre a Montalcino, di scommettere 30 anni fa su Casanova di Neri, tra il sarcasmo di molti. Poi 10 anni dopo su Poggio di Sotto. Ora da 3 anni dico Podere Le Ripi. E vedremo dunque.

Tornando adesso al Montepulciano, ipotizzo che una delle grosse novità del futuro sarà il Vecchie Vigne. Non è ancora un vino grandissimo, gli manca a mio avviso quel pizzico di concentrazione in più, di spalla superiore, di frutto grasso. Ma si avverte dentro di lui una qualità e una crescita, la particolarità di un territorio, la prima coscienza di uno stile, qualcosa insomma più importante di quanto ottenuto ed espresso finora. Così dico, prendendomi tranquillamente i miei rischi, che questa etichetta potrà essere una delle protagoniste tra i Montepulciano del prossimo decennio. Ci sono insomma i crismi di questo decollo, a partire dal sito della vigna. E parliamo di un’azienda che ha iniziato a fare vino di qualità da non molti anni, ma che ha appunto mostrato continui progressi, con il giovane proprietario determinato e lucido nel comprendere i pregi ed i limiti di quanto ottenuto finora, consapevole degli spazi assai ampi che sono ancora tutti davanti e possibili.

Siamo dunque ad Ofena, a pochi chilometri dall’Aquila, su un altipiano spettacolare alle falde del Gran Sasso, dal microclima fortemente continentale, con inverni molto rigidi, estati poi anche assai calde, ma con continue escursioni termiche tra la notte ed il giorno, che non fanno che nobilitare il patrimonio organolettico delle uve. Montepulciano dunque del tutto particolare, più lungo e flessuoso, carico di profumi, suggestioni e fascinose sottigliezze aromatiche. foto vigna neve 2012

Il Vecchie Vigne nasce a 420 metri di altitudine, da un ettaro di vigna a filari impiantati nel 1973 con una fittezza di 2.500 piante, potate a doppio guyot. Le vendemmie avvengono intorno al 20 di ottobre, le fermentazioni delle uve sulle bucce si protraggono per 2 settimane. E, dopo i travasi, il vino viene elevato per 24 mesi in tonneaux da 5 ettolitri.

Verticale completa dunque di tutte le annate di questa etichetta, inserendo anche la 2012 che uscirà nel corso dell’anno.

Inizierei però dalla 2011, che è stata l’ultima ad uscire in commercio e che, tra quelle già conosciute dal pubblico, è la versione che mi ha più convinto. Ricordo di averla assaggiata più di 10 mesi fa in anteprima, durante una manifestazione che si teneva a Roma. Era un rosso bellissimo, appena un po’ carico di legno, ma di grande eleganza, terso, profumato, privo di qualsiasi pesantezza, scattante, moderno, molto fascinoso e carico di promesse.

L’assaggio attuale, a quasi un anno di distanza, mi ha fatto poi pensare. Il vino era abbastanza cambiato, aveva inoltre già completamente digerito il legno. E qui mi è tornata in mente la grande forza e lo spessore carnoso del Montepulciano, vino che ha bisogno di buon legno per nobilitarsi, ma che poi lo avvolge e lo integra, assorbendolo completamente nelle sue fibre.

A questo Vecchie Vigne 2011 avrei dato comunque sicuramente un altro paio di anni di bottiglia per un bouquet più ampio e completo. Ma devo anche aggiungere che la sensazione immediatamente provata nell’assaggio era di trovarmi davanti ad un magnifico rosso italiano moderno, splendidamente vinificato ed elevato nei legni, non tanto riconoscibile però come vitigno. Avvertivo insomma meno la varietalità dell’uva, anche quella sua tipicità territoriale, diciamo la personalità della sua anima. E mi è venuto da pensare come per percorrere ed incamerare questo ultimo, fondamentale tassello occorra arrivare ad uve ancora più mature, più concentrate, più dense, che in sostanza significa un ulteriore abbassamento delle rese in vigna, lasciando meno grappoli in pianta, che possano maturare così completamente e possedere più linfe, più estratto, più carne. Oppure raccogliere le uve oltre il 20 di ottobre, entrando però climaticamente in una zona ed un tempo molto a rischio di piogge rovinose. C’è insomma da compiere appena un ultimissimo passo in vigna per giungere al vino estremo, in un’etichetta che ha comunque dentro di sé già moltissima qualità.

La vendemma 2010 poi era in sostanza il vino appena più sottile ed acido tra tutti, in cui si avvertiva la bellezza della fattura, ma anche una trama meno complessa e vasta.

Il Vecchie Vigne 2009 era invece magnifico, per qualche aspetto, come morfologia, ricordava la 2011, con 2 anni di bottiglia in più, ma forse questo maggior tempo di affinamento  mi accentuava la sensazione di essere un bel vino ancora però a metà del guado, quando manca quel passo in più nella concentrazione, nella fittezza. E a questo punto anche quel grado alcolico in più, con la sua crema di frutto, la densità carnosa.

Ma è poi quello che avviene e si raccoglie finalmente nel Vigne Vecchie 2012, come appunto detto, non ancora in commercio, ma che uscirà nel corso dell’anno e a cui qualche ulteriore mese di bottiglia farà un gran bene. Comunque vino assai importante, stentoreo, frutto di una magnifica vendemmia calda e assolata, che nelle zone più basse dell’intera nostra penisola qualche bel problema con la sua siccità estiva l’ha certamente dato alla crescita armonica delle uve.

Ma a questa altitudine ed in questo microclima il risultato è stato stupendo, con una maturazione sontuosa e perfetta dei grappoli, da piante su cui la potatura era già stata più severa questa volta. Solo 4.200 così le bottiglie prodotte, invece delle 6-6.600 delle precedenti vendemmie. Ma si entra in un’altra dimensione ed il vino offre variazioni aromatiche assai più ricche ed articolate (è uno di quei casi in cui vorrei che passassero in un attimo 2-3 anni per potermelo gustare con un bouquet ancora più compiuto, capire a cosa potrà arrivare). Naso dunque molto bello, assai elegante, ricco di personalità, che si va a comporre sulle prime fragoline di bosco, i primi balsami, gli inchiostri.

Alla bocca colpisce il tessuto smagliante del vino, la bellezza consistente e rasata dei tannini che coniuga garbo e forza, la ricchezza e l’energia delle movenze femminine in una dolcezza masticabilissima di sapori. Un gran vino tutto in fieri, pieno di futuro ed un piccolo fuoriclasse che sta per nascere.

Torre dei Beati

Mazzamurello 2012    91-92

Mazzamurello 2011    92

Mazzamurello 2010    91-92

Mazzamurello 2009    92-93

Mazzamurello 2007    93-94

Cocciapazza 2012   90-91

Cocciapazza 2011   91

Cocciapazza 2010   92

Cocciapazza 2008   91

Vorrei iniziare questa scheda in modo un po’ più leggero (siamo in fondo alla fine).

Sono dunque cosciente che spesso, sull’onda di una vanitosa anzianità (unica cosa certa ormai rimastami), racconto e puntualizzo di essere stato lo scopritore di questo o quel gran vino “… Ma sì, sono stato io il primo a recensirlo. Eravamo proprio ad un passo dalla Seconda Guerra Punica …”. Perdonate, ma in un mondo di cialtroni è il mio ingenuo modo di mettere paletti.

Devo però ammettere che Torre dei Beati è una delle aziende che mi è sfuggita al suo esordio. L’ho scoperta di fatto su una Guida (guai così a venirmi a dire che le Guide non servono a nulla, non fatelo mai). E confesso che a colpirmi inizialmente è stato il nome. Torre dei Beati. Parole soavi, bellissime. Che mi evocavano qualcosa di celeste o la pittura del Quattrocento, lo sfondo nitido dei suoi paesaggi. E anche il prestigioso territorio d’origine che leggevo, Loreto Aprutino, aveva poi un suo buon ruolo nell’incuriosirmi.

Credo che a volte si sottovaluti il peso del nome, la fascinazione della parola. Ma la fortuna di un vino o di un’azienda (ma anche di un film, di un racconto e così via) passa in una discreta misura attraverso questo richiamo. Vogliamo portare come ennesimo esempio il Brunello di Montalcino? E quanto la componente-nome abbia contato nella sua fama e fortuna commerciale?

Ero quindi estremamente ben disposto sulla combinazione Torre-dei-Beati, che continuavo a ripetermi dentro, quando poi sono andato a leggere i nomi delle sue due più importanti etichette di Montepulciano. Cocciapazza, Mazzamurello.

Provavo a scandire quei nomi con l’impressione immediata che la dote di curiosità me l’ero ormai giocata di colpo e che un qualche filo di simpatica insania dovesse attraversare la mente dei suoi produttori. Mentre immaginavo contemporaneamente e con un certo raccapriccio, in un bel ristorante di Roma o Milano, non so, una sofisticata coppia seduta a cena, l’uomo proteso alla conquista della donna, che scorre la carta dei vini, cercando suggestioni che possano aiutare la serata e legge così lentamente, provando a decriptare, Cocciapazza, Mazzamurello … Ma li avrebbe mai scelti?

Va bene, lasciamo i protagonisti di questa storia in preda alla loro paralisi da lettura. E non infierisco oltre, perché poi i vini li ho assaggiati, bevuti e goduti più volte dal 2009 (erano le vendemmie 2005, 2006). I loro nomi li ho ormai metabolizzati. E ad alla fine, miracoli del vino, mi ci sono pure affezionato.PanoramaRicciolo

Ordunque la vigna da cui nascono entrambi (condotta seguendo i dettami del biologico) è stata impiantata a tendone nel 1972, con una fittezza di 1.600 ceppi per ettaro, su un terreno argilloso-calcareo, pieno di sedimenti marini, attorno ai 250 metri di altitudine, nell’area, come detto, di Loreto Aprutino. Le vendemmie avvengono generalmente tra il 10 ed il 20 di ottobre. E sostanzialmente il Mazzamurello nasce dalla selezione severa dei grappoli più maturi della stessa vigna. Entrambi i vini macerano poi dai 20 ai 30 giorni sulle bucce e vengono infine elevati per 20 mesi in barrique, totalmente nuove per il Mazzamurello. Nel Cocciapazza sono invece di primo passaggio per 1/3, poi di secondo e terzo per la restante parte.

Diciamo pure che in questa mia privata epopea del Montepulciano d’Abruzzo, nella quale sono vissuto completamente (ma anche felicemente) immerso per mesi, questi due vini sono apparsi entrambi assai particolari e diversi. Risultato ovviamente dell’aerale di Loreto Aprutino, ma anche, inevitabilmente, della mano dell’uomo.

In essi infatti la componente aromatica del frutto non è così importante come in altre etichette. Qui a livello di profumi domina nettamente la componente austera, severa e lunga del Montepulciano impregnato dei caratteri di quel particolarissimo terreno, quando si sviluppano completamente le sensazioni di erbe di macchia e officinali, sottobosco, bacche, poi (lentamente, dopo anni) catrame, fumo, goudron su un notevole, vasto corredo di spezie.

Intendiamoci, parliamo di due rossi di notevole concentrazione e ricchezza, non è però la ridondanza aromatica del frutto con la sua opulenza, dolcezza e grassezza (come in altri Montepulciano) a compensare in rotonda piacevolezza la forza, l’intelaiatura ed il peso dei suoi tannini. Direi che il loro tono qui non è così importante, insomma non è la loro fase fruttata a renderli grandi. L’unicità e la complessità di questi vini è nella struttura architettonica e tannica, nella dinamica delle loro linee nette e scabre, quando vanno a combinarsi con gli elementi aromatici terziari del vino, quello speziato fascinoso di erbe di macchia mediterranea ed essenze preziose, minerali e di sottobosco, dove le loro forze e particolarità emergono via via in un carattere, come vedremo meglio, “rodaneggiante” dei vini. Tannini dunque di estrema qualità, particolari e soprattutto impregnati, ripeto, di quelle mineralità che hanno succhiato dal terreno.

Ma perché tutto questo abbia modo di venire alla luce al suo meglio, appaia al mondo ed ai nostri sensi in un articolato e maturo ventaglio completamente aperto e svelato, occorrono davvero molti, molti anni. Questi due Montepulciano, proprio per quanto detto, non sono per niente facili, né piacioni. Hanno un’anima ed una cerebralità forte, sono vini fatti di riflessioni anche intellettualistiche (e questo lo dico nella migliore accezione del termine), vini insomma da cultori, da intenditori attenti, che sappiano guardare, sfogliare pagina dopo pagina, ed appassionarsi a tutto il divenire della loro complessa trama olfattiva e gustativa, che è assai originale, per non dire unica.

Così l’assaggio della 2012 (vendemmia di qualità molto buona) ci ha dato davvero l’impressione che stavamo, nel nostro piccolo, commettendo un vero e proprio sacrilegio enologico. Davanti a quei calici (stavo assaggiando in contemporanea entrambi i nostri eroi dagli immaginifici nomi) confesso di aver guardato i 2 tappi con angoscia e con l’impossibile desiderio di rimetterli al loro posto, cancellando tutte le azioni scriteriate dei minuti precedenti. Poter rivedere così le bottiglie perfettamente intatte, ancora da aprire e da poter conservare per almeno altri 5 anni. Perché di questo parliamo.

Ritengo davvero che in una buona vendemmia questi vini comincino a dare il loro meglio intorno ai 10 anni di età. E questo può essere una bella notizia per la qualità che i vini contengono, ma anche un bel problema per un auspicabile più lungo tempo di affinamento in bottiglia e loro relativo stoccaggio, per i costi di tutta l’operazione e così via.

Comunque non voglio la rovina di nessuno, tanto meno di produttori che stimo. La butto lì dunque e già mi accontenterei se intanto il Mazzamurello venisse venduto un anno dopo il Cocciapazza (in vecchiaia tendo sempre, inevitabilmente, al compromesso). E comunque quello che raccomando, a chi possiede la vendemmia 2012 di questi vini, è di tenerseli cari e goderseli assai più in là.

L’esito di questo assaggio comunque (oramai le bottiglie erano aperte) è stato molto intrigante. Ma tutto appariva in nuce, tutto in fieri, come vedere un’adolescente con i tratti del viso e l’incedere di quella che sarà tra qualche anno una bellissima donna.

Il Cocciapazza più compatto, più monolitico, anche più vegetale, il Mazzamurello più articolato, con più accenni, più idee, più lampi grassi e complessi. Difficile inoltre collocarli in un punteggio, che inevitabilmente finisce per esprimersi in aspettative, potenziali, suggestioni. Parliamo certo di due gran vini, ma assolutamente crudissimi.

La 2011 poi presentava un quadro solo di poco più dichiuso. Come dal filo della porta si cominciava ad intravedere una composizione di erbe officinali, un respiro rodaneggiante già nel Cocciapazza, con un principio di garrigue e dunque riferimenti alti ad etichette del Rodano, poi carne affumicata, bacche, humus. Ma nel complesso un quadro ancora generico e, man mano che il tempo passava, con una prima apertura agli inchiostri.

Il Mazzamurello ’11 marcava più sulla concentrazione, sull’intensità ed inevitabilmente appariva più indietro, ma nello stesso tempo aveva la riconoscibilità del rosso particolarissimo nel suo patrimonio aromatico. Le note di macchia mediterranea erano più nette e decise, più dolci ed importanti, che si aprivano a sensazioni ematiche ed affumicate su un fondo di humus, terra bagnata ed un primo goudron in gestazione.

La 2010 appariva frutto di un’annata appena meno importante ed in questo senso il Cocciapazza ne guadagnava, perché era più delineato e leggibile, con un corredo olfattivo che baluginava di alloro, canfore, ginepro, bacche, terra bruciata. Ed una bocca poi sontuosa e severa, inchiostrata e goudroneggiante. In questo senso dava la sensazione di essere più assestato del Mazzamurello, che nel futuro sarà certamente superiore, ma si presentava ancora decisamente crudo e scomposto.

La 2009 è poi un vino più sottile, già in partenza dunque un Mazzamurello più piccolo, ma, finalmente ed ovviamente, il potenziale era abbastanza espresso, con un corredo olfattivo particolarissimo e leggiadro, che si è innalzato per ore, dalle prime tracce ematiche, carne, fumo, al sentore netto di garrigue, poi spezie complesse, balsami, menta. Bocca appena sottile e puntuta, ma fresca e gustosa, masticabilissima, ancora con spazi espressivi davanti.

Il Mazzamurello 2007 infine è stato il miglior vino assaggiato di questa azienda. Vendemmia appunto grandiosa, importante (con una punta di perfidia mi è anche venuto da pensare che c’è chi in Abruzzo questa vendemmia non l’ha ancora messa in commercio). E vino sontuoso già al colore, decisamente più profondo del 2009. Naso catramato sin dal primo impatto, imperativo, potente, fatto di volume, corpo, pienezza, fisicità, rotondità. Ritorna il diapason espressivo di questo vino (ma ad una superiore altezza e spessore), la bellezza della macchia mediterranea, la corporalità della carne affumicata, il sottobosco, lo speziato, il goudron, i balsami mentolati a rinfrescare e un primo accenno di cioccolata. La bocca poi è densa, cremosa ed in perfetta restituzione degli aromi avvertiti, con un bel tenore acido a percorrere la compattezza dell’estratto.

La sensazione provata è stata anche di un balzo nella memoria, un gran rosso, modernamente vinificato, ma con in sé qualcosa di antico, qualcosa che conoscevo del vitigno, ma che avevo dimenticato, che in questi 20 anni mi ero perso. E dunque anche in questo senso un vino assai importante e un ragguardevole punto di riferimento per quello che è, è stato e sarà il Montepulciano.

Sarebbe stato interessante a questo punto assaggiare sulla vendemmia 2007 anche il Cocciapazza, ma il produttore (parliamo del co-autore dei famosi nomi, attenzione) mi ha inviato invece la 2008, annata lì funestata dalla grandine rovinosa del 4 luglio.

Devo dire che il vino ha meritato però molta attenzione. Mi era capitato diverse volte di assaggiare rossi (molti Barolo e Barbaresco in questo caso), le cui vigne erano state colpite dalla grandine estiva. Piante ferite, che, in casi felici, erano state poi in grado di portare avanti la maturazione dei pochi grappoli rimasti, dando così vita a vini notevolmente concentrati.

Questi particolari rossi hanno comunque sempre avuto una riconoscibilità. E ritorna qui ancora una volta l’aspetto umano della vite, che non può nascondere il travaglio, i colpi, la sofferenza che ha attraversato, il trauma delle cicatrizzazioni sul suo corpo. E la temporanea interruzione di nutrimento e di passaggio di linfa che questo ha poi significato per i frutti sopravvissuti.

Il Cocciapazza 2008 presentava così un colore di grande profondità e concentrazione, dato da questo forzato abbattimento delle rese. Il profumo era poi intrigante, severo. Alla base rimaneva l’intelaiatura di sottobosco, bacche, terra bruciata, ma più in alto dominava inizialmente un certo ridotto, un senso di vegetale-tostato che, a mio avviso, era il ricordo di quell’evento funesto, qualcosa di essiccato che aleggiava.

Ho così riassaggiato il vino a distanza di 12 ore. Questa nota si era abbastanza dispersa nell’ossigenazione, c’era un ampio letto di macchia mediterranea e humus, poi bruciato. Ma era soprattutto la bocca a colpire, compatta, liscia, densa e nello stesso tempo però anche con l’impressione di qualcosa di assai pronto, cremoso, nocciolato e gentile, come mai questo vino aveva evidenziato. Il fatto è che annate di questo tipo non possono dare vini esageratamente longevi. Sono di fatto dei sopravvissuti, hanno un’anima più delicata, più leggera, più soave. Sembrano dei bambini.

Feudo Antico

Rosso Riserva 2012        93

Rosso Riserva 2011        92

Rosso Riserva 2010        92

La possiamo considerare come l’ultima nata tra le etichette di grandi Montepulciano, all’interno poi della nuova Doc Tullum, che è appena del 2008. Ad indicare come in Abruzzo si vadano studiando anche nuove strategie, per superare la genericità di una semplice indicazione di vitigno, partendo, come qui, dalla particolarità del territorio.

Questo Rosso Riserva di Feudo Antico è sostanzialmente la migliore selezione di Montepulciano della Cantina Tollo (una delle grandi realtà cooperative della regione), raccogliendo il frutto delle migliori parcelle dei suoi areali in etichette di poche migliaia di bottiglie, in cui si sperimentano i picchi estremi dei vitigni territoriali (molto interessanti ad esempio anche i suoi vini bianchi come la Passerina ed il Pecorino, oltre un Rosato naturale non filtrato che mi stupisce e mi intriga ad ogni assaggio per la bellezza e gustosità di beva, certamente, ma anche per la particolare serbevolezza che questo vino mantiene su vendemmie distanti anche 3-4 anni). _MG_6897

Il Rosso Riserva è appunto un Montepulciano di notevole spessore e bellezza, che nasce da piccole vigne a tendone tra i 20 ed i 35 anni di età, ad un’altitudine intorno ai 200 metri. La particolarità è che qui il vitigno viene indagato tentando nuove soluzioni nei tempi di raccolta delle uve, sperimentando anche un leggero appassimento su una piccola parte di queste, al fine di arrivare ad un risultato più ricco, intenso e complesso sul piano estetico.

Credo sia molto importante questo indagare e cercare di andare oltre, camminare, vedere quanto spazio ulteriore il Montepulciano contenga dentro di sé. E’ un segno della dinamicità del territorio ed è qualcosa in fondo che si lascia anche ad altri, il testimone di una ricerca che potrà dare in futuro belle, positive sorprese anche in territori diversi.

Macerazioni delle bucce dunque intorno ai 15 giorni. E, dopo la svinatura, questo rosso trascorre più di un anno in vasche di cemento. Poi viene elevato per circa 18 mesi in barrique.

Ho così assaggiato le ultime tre vendemmie imbottigliate, la 2010, la 2011 ed infine la 2012 che verrà presentata nel corso dell’anno, verificando la consistenza di tre rossi di notevole bellezza e abbastanza diversi tra loro.

La mia preferenza è andata al 2012 (che è anche l’ultimo tassello di questa ricerca e si basa ovviamente sull’esperienza che è stata incamerata nelle vendemmie precedenti). Era il più sferico, compatto, ricco, che rivelava un’estrema rotondità e fascino sin dalla prima bordata di profumi.

Credo inoltre che questo leggero appassimento di una parte delle uve conferisca al vino quella cremosità e grassezza che, senza nulla togliergli in longevità, lo rende però godibile ed approcciabile anche prima. Cioè la crudezza e la dura inaccessibilità, l’incompiutezza che ho riscontrato, nell’assaggio di tutte queste settimane, in altri Montepulciano 2010, 2011 e 2012, come ho appunto raccontato, qui viene superata dall’opulenza suprema del suo frutto, in questo ispessimento del vino, che cresce, assume un’altra dimensione e misura, dilata la sua polpa, la sua crema, divenendo vellutato, morbido, levigato, ricchissimo di espressività.

Siamo dunque davanti ad un Montepulciano 2012 ridondante e sereno, con la tipica solarità delle colline che dominano l’Adriatico. Il segno di questo Rosso Riserva è appunto in una godibilità importante, sontuosa, piena di echi e sfumature, ma anche in una sua esemplare bellezza di composizione.

Il pericolo, davanti a vini così esplosivi e ricchi in estratto, è nella possibilità di riscontrare anche sbavature gusto-olfattive, note non nitide, sensazioni di surmaturo e di stucchevolezza. Questo Rosso Riserva 2012 è invece un gioiello di euritmia, dove tutto appare perfettamente calibrato, con un frutto di armoniosa dolcezza, generoso nel carattere, intriso dei primi accenni tartufati, poi alloro, spezie, inchiostri dolci che faranno goudron, in un vino solo all’inizio del suo cammino, che si annuncia particolarmente lungo e felice.

La bocca poi è superba, dichiarata, di potente morbidezza, con una gioiosa concentrazione di frutta, che non si finisce mai di godere. E se devo scegliere due aggettivi per raccontarlo e definirlo in modo chiaro, semplice, immediato (i primi che mi sono venuti in mente e che ho appuntato, mentre avevo il vino davanti a me), dico maestoso e generoso. C’era di fatto molta energia e c’era anche sorriso in questo vino, una sorta di vasta sicurezza, qualcosa di solido e sereno, privo di qualsiasi inquietudine, che diventava in qualche modo gioia dello spirito. E mi sembrava un grande tassello, il risultato finalmente raggiunto, acquisito, in un lavoro durato anni.

Il Rosso Riserva 2011 (fermo restando che è similare nel profilo gusto-olfattivo) offre però il frutto di una vendemmia diversa. Vino appena più sottile, che si esprime maggiormente sul piano dell’eleganza, con una notevole ariosità di profumi ed una tipologia di aromi appunto più alti, più verso la freschezza, la nervosità, ma anche con una superiore percentuale di crudezza. Trovo che sia notevole il nitore espressivo, attraversato da una spina acida che gli darà lunga serbevolezza per molti anni. Rispetto alla 2012 è appunto più sottile e al tempo stesso più agile. Ed è questo uno dei grandi quesiti che mi pongo, quando assaggio. Nel senso che è probabile che il 2011 possa avere una vita più lunga del 2012, ma non credo che ne raggiungerà il picco di bellezza e piacevolezza espressiva.

Su quale preferire dunque io non ho dubbi. Ma è anche chiaro che l’unico punto di riferimento siamo noi stessi, con la nostra privata idea del gusto.

D’altra parte, se andiamo sulla metafora, personalmente non credo che un maratoneta sia più atleta di un mezzofondista o di un centometrista. Insomma, secondo me, il miglior vino non può essere quello che vince una gara di resistenza, ma è qualcosa di vivo che, come per tutti gli esseri, ha il destino di una sua vita, più lunga o più corta. Quello che personalmente cerco in un vino è la massima bellezza e felicità, tentando poi di coglierla nel suo momento di massima espressività ed intensità. Che è poi il compito di chi scrive di vino, provare ad individuare questo arco di godibilità ed informarne onestamente. Tra questi due grandi Montepulciano così il livello più alto lo raggiunge, a mio avviso, il 2012 e lo manterrà per i prossimi 5 anni. E’ possibile che sia meno longevo della 2011, che terrà il suo picco per un arco di tempo più lungo, d’accordo, ma senza arrivare al livello del 2012.

Comunque provateli. Il mondo del vino è fascinoso anche per la diversità di sensazioni che si avvertono. E parliamo comunque di due grandi rossi in entrambi i casi.

Il Rosso Riserva 2010 è infine un altro magnifico vino che merita, proprio per il suo maggior tempo in bottiglia, di arieggiare maggiormente nel calice. In qualche misura poi la 2010 è stato la prima vendemmia-prototipo di questa ricerca e, rispetto alle altre due annate, rivela nel naso qualcosa di ancora tradizionale ed old style, soprattutto nell’austerità che si affaccia al primo colpo di assaggio. E’ un quadro che tende poi ad aprirsi sempre più alle more, ai piccoli frutti neri, al sottobosco, all’humus, a sensazioni ematiche su un finale di goudron, pur mantenendo sostanzialmente il carattere di un gran rosso cupo, severo.

Questa impressione tende poi a dissiparsi alla bocca, tanto il vino è invece grasso, generoso, masticabilissimo e solenne, sinuoso di sapori importanti di frutti neri, fumi, balsami, inchiostri catramati. Un grande Montepulciano di peso, di sostanze, di volumi, già prossimo ad un suo apice gustativo, nel quale però dovrebbe rimanere ancora abbastanza a lungo.

In Conclusione

Giunto al termine di questo lavoro (è un po’ lungo, lo ammetto, ma l’argomento, i suoi vini ed i suoi temi credo lo meritassero), volevo fare alcune ultime considerazioni.

Ovviamente, ho scelto in questi mesi di assaggi continui le etichette che si sono rivelate per me più importanti, quelle che ho ritenuto più significative e che sono andate a confermarsi, anche in una continuità di verifiche iniziate in taluni casi 2 decenni or sono. Credo sinceramente che esse rappresentino la cuspide di un panorama vitivinicolo abruzzese tuttora in pieno movimento e carico di enormi possibilità espansive.

Sono anche consapevole, nonostante io le ritenga di livello assoluto ed in grado di rivaleggiare con i migliori vini italiani, che la loro fortuna sia stata sin qui abbastanza modesta. Come del resto modesta è l’immagine e l’impressione che si ha nel mercato globale di tutto il vino abruzzese.

Numerose volte in questi anni mi è capitato, con colleghi o semplici amici e appassionati, di parlare di un grande assaggio appena fatto, di una scoperta importante. E di nominare poi lì un Montepulciano d’Abruzzo. Ricevendo come risposta uno sgranare d’occhi tra l’incredulo e lo scettico.

C’è qualcosa (è bene dircelo, anche se non mi diverto per niente a farlo) che non è scattato nell’immaginario del consumatore e dell’appassionato italiano nei confronti del vino abruzzese, che non viene percepito come eccellenza o come possibile tale.

Ho continuato così ad interrogarmi sul perché questi vini, con talune minime eccezioni, non abbiano avuto nel complesso tutta l’accoglienza che meritavano.

E’ ovvio che ci sono numerosissime ragioni. E si potrebbe scrivere un libro sugli errori e sui passi non compiuti, che fanno ancora oggi della realtà-Abruzzo una grande sconosciuta, a partire dall’Italia, ma soprattutto nel mondo, nonostante un vitigno di tale qualità e la presenza poi in ogni continente di tantissimi emigranti (molti dei quali sono poi ristoratori, chef e così via, in un potenziale immenso ed ancora tutto da tentare in modo professionale e direi scientifico).

Sarebbe da non trascurare poi, a detta di molti, anche un bel problema a monte e un peccato d’origine fatto di nomi, di parole, di omonimie che non ha certamente aiutato (i nomi contano, si diceva). Potrei raccontare, soltanto ad esempio, come pochi anni fa un mio articolo su Repubblica, che parlava di un Montepulciano d’Abruzzo, abbia poi incontrato un candido titolista che ha tranquillamente pubblicato in un bel neretto deciso “DALLE COLLINE TOSCANE …”. 

Ma, questo a parte, c’è un problema enorme nella nostra regione di ritardo strategico e comunicativo, di organizzazione e classificazione chiara dei vini a seconda della loro reale importanza e misura, che ha pesato come un macigno, in una eterna divisione di intenti, interessi, particolarismi.

Riflettendoci ora, a molta distanza di tempo dall’uscita delle prime etichette che ho provato a raccontare, ha davvero del miracoloso che vini tanto profondi, reali e complessi si siano potuti progettare e produrre nel mezzo di un panorama così confuso ed in ritardo. Proprio per questo è anche probabile che molte etichette fossero troppo avanti rispetto all’epoca che abbiamo attraversato. Non era sicuramente pronto il pubblico del territorio, legato ed educato ad un altro concetto di Montepulciano, così come la stampa, dispersa nelle sue oscure nebbie e occupata a premiare i secondi vini aziendali, quelli in fondo più facili, più commerciali, talvolta più ruspanti. Né poi l’approdo verso l’estero è mai stato preparato a dovere.

Dico questo, anche esulando per un momento dal campo che mi compete. Ma ritengo che, se c’è ancora uno spazio operativo (e c’è), sia necessario partire dall’assunto che tutti i grandi vini italiani abbiano in fondo nel mercato estero la loro più logica collocazione. Sono i vini-bandiera che devono far conoscere i nostri territori, tutte le loro particolarità ed poi conseguentemente anche i piatti e i cibi, i luoghi, le località, il passato e la storia della nostra regione, creando un fondamentale volano con un turismo alto, di qualità, cui saremmo (prendiamone coscienza) naturalmente vocati.

I vini di cui parlo sono etichette di avanguardia che nascono da uno studio, una selezione, un sacrificio e una cura che li porta di fatto ad avere un costo superiore, che il mercato estero di qualità è però in grado di accettare senza particolari problemi. Soprattutto esiste qui una fascia di consumatori e collezionisti colti, abituata ad assaggiare i migliori vini del pianeta, che è in grado di giudicare queste etichette concretamente per tutta la qualità, la bellezza, la personalità e l’originalità che esprimono, senza i pregiudizi, i capricci, le beghe, le invidie e le pochezze di casa nostra.

Ora una fondamentale operazione di conquista di tale mercato credo debba essere ancora massicciamente tentata. E ritengo che la sua percorribilità sia certamente tutta possibile. Ma sono sempre più convinto che debba però essere sviluppata in una articolata sinergia e strategia tra tutti i migliori produttori di Montepulciano.

E’ fondamentale riuscire a creare insomma un pacchetto di mischia che contenga in sé moltissime etichette di valore assoluto, per far capire e lasciar verificare ai mercati più importanti del vino cosa realmente questo vitigno e l’Abruzzo siano in grado di esprimere ed offrire.

Questi Montepulciano possiedono le qualità, la complessità, la profondità e l’autenticità per far letteralmente innamorare molti consumatori e collezionisti esteri. Ma l’azione strategica va obbligatoriamente condotta assieme, oltre che per i tempi ed i costi che comporta, soprattutto per un altro fondamentale motivo. Se un produttore ha la capacità, la forza e la bravura di imporre la propria etichetta di Montepulciano, non sarà altro che l’ennesimo exploit di un unico bravo produttore italiano, con la memorizzazione di quel nome o marchio aziendale. Questo è un buon vino. Ok. E inevitabilmente tutto poi finisce lì.

Ma se invece si presentano assieme e si affermano contemporaneamente numerosi produttori dello stesso territorio, ognuno con il proprio grande Montepulciano, diverso per caratteristiche, area, sito, altitudine del pianeta-Abruzzo, ma comunque con vini tutti dal livello e dalla personalità perentoria, allora questa diventa la chiara dimostrazione per il pubblico internazionale che ad essere grande è il vitigno ed è grande appunto in simbiosi con il suo territorio storico.

E’ l’affermazione del Montepulciano d’Abruzzo, che in situazioni e microclimi totalmente differenti riesce ogni volta ad esprimere vini di superba intensità, profondità, ricchezza. Di un’originalità non replicabile altrove. Ed in questo senso proprio la grandezza dichiarata dei vini può fare luce e lustro, in un rimbalzo che c’è sempre di attenzione e curiosità culturale, sulle tante, diverse ed ancora poco conosciute aree dell’Abruzzo, scatenando tutto un indotto sul nostro territorio.

Pensiamo solo a quanto vale e significa in termini di marketing “Brunello di Montalcino” con un ritorno potente per l’economia dell’intero Senese (ma giuro, è l’ultima volta che lo porto ad esempio).

Credo così che ogni produttore intelligente, consapevole e lungimirante debba saper mirare a questo successo complessivo. Solo da questa forza e da questo riconoscimento collettivo può iniziare un futuro diverso.

Poter dimostrare, in un largo, rigorosamente selezionato gruppo, la grandezza del Montepulciano d’Abruzzo e continuare così a poter lavorare (il successo e quindi la conseguente maggiore disponibilità economica saranno fondamentali in questo), a fare seria ricerca, poterla ancor più affinare e mettere a punto anche sui cloni più antichi del vitigno, sui portainnesti, sui più idonei sistemi di impianto e di potatura, investire poi in nuove vigne, scovare nuovi territori, proseguire così ad alzare incessantemente l’asticella qualitativa, tracciando strade e ipotesi, innescare insomma sempre più un volano virtuoso e continuo, su cui potranno crescere nel futuro le idee e le prossime, nuove generazioni di viticoltori abruzzesi.

La prima parte di questo lavoro è in  Grandi Montepulciano d’AbruzzoB60 COMPRESSO

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