Viaggio/ viaggio per fuggire altro viaggio. Mi tornano sempre in mente questi versi di Gozzano quando sto per partire. Il fatto è che sono in un’età della vita, in cui ci si muove poco, affondati alle proprie abitudini e ai luoghi, alle facce. Così, in qualche modo, è la casa ormai a diventare lo spazio dei viaggi. E l’assaggio di vini importanti, di quelli che mi intrigano, mi stupiscono, mi piacciono, sono il guizzo verso l’avventura, l’ignoto, il nuovo confine del gusto, della mente. E poi l’avete capito, vini ripetitivi, omologati, scontati, non li troverete mai nelle pagine di questo sito. Quello che cerco è l’intentato, il vino che prova a superare un limite consueto di profumi e sapori e al tempo stesso (ed è questo il difficile) contenga ed apra in sé nuovi margini di bellezza, di godimento, di piacere dei sensi e delle idee.
Un vero e proprio viaggio però l’ho improvvisamente fatto ad inizio estate, un invito casuale (ma forse tutto è molto casuale nella nostra esistenza) nella Sicilia barocca di Ragusa Ibla, di Scicli, di Modica.
Premetto che sono nato e vissuto a Roma e mi sono più o meno malamente costruito negli intrichi di vie del suo centro storico, dove le facciate barocche delle chiese mi apparivano improvvise e abbacinanti, gigantesche a volte. Direi che quei disegni e quelle volte mi scorrono nel sangue e negli umori (anche nei malumori) e ogni tanto mi danno un distacco dalle insistenti miserie del presente.
Questo per dire che sono partito preparato e consapevole. Eppure non si finisce mai di capire, conoscere e provare quella stupefazione che rende la nostra vita anche e ancora bella e sorprendente. E qui apro una parentesi (ma tornerò presto sul vino, lo giuro), perché il filo conduttore di questo viaggio in Sicilia è stato nella scoperta di un nome per me allora ignoto, che è quello di Rosario Gagliardi, e di un’altra storia che più italiana non si può.
Ora non voglio entrare in un campo non mio. Ma qualche notizia la devo pur dare, affinché sia tutto più chiaro. Parliamo di un genio dell’architettura che ancora 250 anni dopo è poco conosciuto. Nato appunto a Siracusa (ma non si sa nemmeno bene in che anno, comunque tra il 1682 ed il 1690) e morto a Noto nel 1762, quando quell’angolo della Sicilia era stato devastato dal terremoto del 1693, uno sfacelo che ne aveva raso al suolo tutta l’area ed ucciso metà della popolazione, Rosario Gagliardi ha dato il segno alla ricostruzione più nobile e inimmaginabile del territorio (ma non nella sua città natale, ovviamente, dove non ha mai avuto particolari incarichi).
Per quel poco che si sa di lui, c’è una lunga gavetta di cantiere, da scalpellino a faber lignarius, apprendistato a Palermo, contatti con la scuola dei Gesuiti, poi capomastro a Noto e da lì nelle contee circostanti. Improbabile un suo viaggio a Roma, ma è certo che conoscesse tutte le ultime dinamiche del suo barocco almeno dai volumi di incisioni pubblicate in quegli anni da Domenico De Rossi.
Insomma l’impressione, provando a cercare, è quella di una vita opaca, sotterranea apparentemente, ma folgorata da un ardimento visivo sconfinato e con opere di una bellezza stupefacente.
Non so come potessero apparire ai suoi contemporanei e quante tribolazioni per lui, quante invidie e intrighi abbiano fatto nascere. Ma scoprirle da Ibla a Scicli, a Modica, camminare in quelle strade guardandole, provando ad impadronirmene mentalmente, è stata un’avventura meravigliosa, che auguro e che dovrebbe appartenere a tutti. Queste facciate, con un loro segno inconfondibile, pieno di genio e di follia, mi hanno lasciato di stucco. E quello che mi sono chiesto più volte è da cosa nascesse questo senso così forte di meraviglia, per una persona in fondo abituata in qualche modo a questo intarsio di linee architettoniche ed anche ad una certa sorpresa e teatralità che è nel carattere del barocco.
Ma in questa Sicilia ci sono due elementi totalmente distanti dal paesaggio del centro storico di Roma, dove le costruzioni e le chiese si assestano e si incastrano accanto alle linee di altri palazzi nobiliari. E tutto va ad inserirsi in uno spazio importante, in cui gli stili dei secoli più diversi continuano a sovrapporsi.
Queste stupefacenti chiese del ragusano sono invece calate dentro un contesto sostanzialmente semplice, “povero”, accanto a piccole case quasi sempre a due piani, in un normale e magari pittoresco paesaggio da paese del Sud Italia. Ora, incastonate appunto dentro queste vie e gradinate anguste, quasi isolate in una geometrica modestia di linee, queste facciate si innalzano ancora più stupefacenti e diversissime, con il loro folgorante cesello di linee preziose, visionarie, che spezzano e variano ogni schema, tutte a sbalzi, a vuoti e pieni, a pinnacoli, a puntali, che superano il paesaggio, lo valicano, quasi a distaccarsene, riplasmando la materia e l’immagine di quella sua pietra, che cambia poi colore in ogni ora del giorno e mutamento del tempo.
In me l’effetto è stato appunto di stupefazione totale. E l’altro elemento di sorpresa è stato proprio nel senso fortissimo di libertà creativa e intellettuale che queste chiese esprimevano (il Barocco romano si è costruito in un’aria e in un tempo di Controriforma fortemente controllata e occhiuta), con il loro voler andare oltre ogni limite architettonico, ogni regola, il voler folleggiare e fantasticare con trame e volute, intarsi. Il tutto poi pochi anni o decenni dopo la rovina di un terremoto tra i più tremendi della storia del mondo, quasi un urlo liberatorio ad una possibile fiducia di vita, alle capacità dell’uomo, alla sua idea di bellezza e di reazione, contro la rovina, la devastazione, la morte.
Insomma questo viaggio l’ho vissuto appunto come un’appassionante avventura e lezione. E tutto questo spiccare di gioielli improvvisi e irripetibili in un contesto quotidiano, in una “norma” umile, scontata, mi è sembrata anche una metafora del nostro paese e della sua storia, fatta di rari momenti di prodigiosa genialità in un mare di tempo modesto, piatto, dentro cui tutto ripiega su se stesso, tutto ristagna. E ancora poi pochi uomini di valore, capacità, creatività e generosità assoluta (spesso misconosciuti) in una immensa, desolata landa di figure opache, banali, incapaci, inefficienti, svogliate e assai spesso immorali.
Torno così adesso al vino che, non si scappa, è un’altra cartina al tornasole del nostro paese. Sono il primo a dire che in questi decenni si è fatto un balzo in avanti grandissimo. Si potrebbe dire che finalmente da un grado zero sia nato oggi il vino italiano. Ma, tra le decine di migliaia di etichette che girano, quante sono veramente grandi, assolute, emozionanti? Quelle che, dopo più di quarant’anni di assaggi, mi porterei in un altro mondo?
Potrei dire (e mi tengo forse largo) un centinaio. Per il resto ci sono migliaia di vini che vanno dal piacevole al simpatico, al gustoso (ed è giusto comunque che esista anche una fascia di buon vino quotidiano), poi molte sul limite del buono-non buono, fino poi al modesto, al difettoso, allo scorretto, all’imbevibile, a quello che non offriresti neanche al peggior nemico nel momento di maggior odio …
Il punto è che fare un grande vino significa anche incrociare e indovinare un infinito e intrigante puzzle di vitigni idonei, terreni vocati, sistemi d’impianto e poi fittezze, portainnesti. E su tutto c’è sempre l’uomo. Quasi tutto si gioca qui. Il personaggio che può imperdonabilmente non azzeccare una mossa o azzeccarne poche, limitando così il potenziale delle sue uve. E siamo allora, come sempre, nel mare magno che fluttua, che ripete pigramente gli stessi gesti ogni anno, con modalità, criteri, rituali, non riuscendo ad andare oltre l’ovvio, il già sentito, lo scontato, il sazio.
Oppure a volte esiste anche il personaggio superiore che, se ha gusto, sensibilità, passione sconfinata e poi estro, coraggio, intelligenza (ma anche molta umiltà, a capire gli eventuali errori, a sapersi correggere) e così genio, incontentabilità, può giungere a portare avanti il punto limite di tutto quanto ha conosciuto e ottenuto fino all’anno precedente, creando via via un vino immenso, che allarga ancora il cerchio dell’orizzonte, il suo spettro aromatico e di sapori, di colpi al cuore, di impressioni che nessun vino aveva mai suscitato fino ad allora, offrendole alla fine agli altri uomini.
E’ il gioco di ogni anno, quello che auguro ai viticoltori (che possano tutti diventare insaziabili), a tutti coloro che sono in vigna mentre sto adesso scrivendo (18 settembre, giornata ancora caldissima a Roma, e cerco così di proteggere dallo spegnimento l’ultimo neurone rimastomi nel cervello), a raccogliere grappoli o ad assaggiare i diversi acini, per capire quanto manca ancora, concentrandosi sull’astringenza, sui sapori, sulla dolcezza, puntando gli occhi e fermandosi così ogni volta, invariabilmente, sempre verso il cielo.
Veniamo dunque ora ai vini di questo spicchio della Sicilia. Perché quello era anche il senso ed il fine del viaggio, con ripetuti assaggi in loco e poi di nuovo, su più largo spettro e numero di campioni, a Roma.
Quali dunque le impressioni? Molto interessanti ed intriganti sui vini rossi e sostanzialmente su tre vitigni, il Nero d’Avola, il Frappato, il Syrah (più limitate parcelle di Cabernet Sauvignon).
Certo non abbiamo ancora un Rosario Gagliardi del vino, almeno mi pare. Ma la sensazione complessiva (mi sono sentito un po’ come 30 primavere fa, non so, quando attraversavo le Langhe o le colline del Chianti Classico e ogni anno era un fiorire continuo di novità) è stata quella di valutare un territorio in rampa di lancio, praticamente giovane, pieno di positivi fermenti e alle sue prime esperienze importanti, nonostante un rapporto plurimillenario con la vite (ma questo riguarda un po’ tutto il Bel Paese). Con al suo interno poi un vino storico come quello del Cerasuolo di Vittoria (che è anche l’unica DOCG della Sicilia), con il suo nome, certo non più modificabile, ma che qualche equivoco nel mercato può ancora portare.
Il termine Cerasuolo infatti una sua giustificazione poteva averla nel passato, con sistemi d’allevamento e pratiche enologiche che portavano il Frappato (vitigno allora prevalente nel vecchio Disciplinare) ad un colore di scarsa intensità ed anche con tendenze ossidative. Ma parliamo appunto quasi di una preistoria per questo vino, che sta ormai compiendo il suo cammino dell’arte (in vigna ed in cantina) e appare oggi nel bicchiere, in tutti i campioni testati, di un bel rosso vivo, rubino ed anche assai profondo nei suoi esemplari migliori.
Il Cerasuolo di Vittoria è così il filo rosso che attraversa tutta l’area, definisce il profilo delle aziende e nasce da un blend di Nero d’Avola (che oggi può arrivare fino al 70%) e appunto di Frappato, con il primo vitigno a conferire profondità, forza tannica, importanza ed il secondo a dare profumi, grazia, sorriso. Ogni produttore, dicevamo, offre qui una propria interpretazione di questo vino, se più immediato, piacevole, fragrante, con poco o affatto legno. Oppure più profondo, ricco e complesso, più portato a maturare lentamente negli anni.
Accanto a queste etichette (mi riferisco ovviamente ai vini più importanti, presi poi in considerazione nelle schede), che segnano una riscrittura dei vitigni, con nuove prove di sistemi di allevamento a più basso carico di uve, abbiamo poi delle selezioni in purezza di Nero d’Avola e di Syrah, che rappresentano in diversi casi il rosso estremo di ogni azienda.
Le impressioni, le sorprese sono state, ripeto, positive. Ma devo anche dire di aver provato la sensazione che si possa ancora andare oltre. Ogni volta, ad esempio, che ho avuto l’opportunità di assaggiare lo stesso vino su due vendemmie confinanti ho inevitabilmente verificato come l’annata più recente avesse qualcosa di più in bellezza, armonia, importanza compositiva e dunque in sostanza, in carne e polpa buona e così in raffinatezza, fantasia, ampiezza di profumi. A segnare come qui, in questa fase storica, ogni vendemmia diventi un tassello in più in consapevolezza, incameramento dati e così in espressione di quanto di buono e bello contengono i grappoli.
Sono anche convinto che ci sia soprattutto un ulteriore spazio di lavoro e ricerca in vigna, che molto si possa fare su questi terreni con i sistemi d’allevamento, portainnesti, potature, per arrivare a rossi più caratterizzati ed estremi, lavorando sui monovitigni, ma anche sulla sinergia tra vitigni, come la storia stessa del Cerasuolo di Vittoria dimostra.
Del resto il territorio è magnifico e rappresenta la punta estrema dell’Italia (più a sud di Pantelleria e Tunisi), su suoli dall’impasto minerale assai composito e variegato, che degradano lentamente e dolcemente verso il mare, e sono continuamente ventilati, a moderare le temperature, a conferire sanità alle piante, tanto da rendere ancora più agevole una diffusa viticoltura biologica.
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