Brunello di Montalcino 2009 92-93
Rosso IGT 2010 90
Rosso IGT 2011 89-90
Potevo inserire questi vini nell’articolo “Montalcino 2009, 2008 …”. Parliamo in fondo di un Brunello 2009 e di altri due vini, 2010 e 2011, che sono fondamentalmente dei superossi di Montalcino.
Non sarebbe stato però sostanzialmente corretto, visto che gli assaggi sono avvenuti 2-3 mesi dopo. Né eticamente, visto che quello è ormai un articolo già fatto e pubblicato. Manteniamoci dunque almeno qualche piccola regola di correttezza per quei posteri che giudicheranno la nostra epoca (ha già lasciato detto Brecht “Perdonate noi per il nostro tempo”). E poi questo Podere Giodo (a chiedermi di nuovo, ma chi è costui?) è una sostanziosa “Novità”, quindi da inserire gustosamente nella giusta casella de I Migliori Vini della Nostra Vita.
Ora però di cassetta di legno parliamo (da 3 bottiglie e questo lo dico per qualche simpaticone di mio collega potenzialmente geloso) e non di casella, quella recapitatami durante le scorse festività, con su incisa la scritta dell’azienda.
Io che di Montalcino (in quanto a vino) ho la spocchiosa presunzione di sapere quasi tutto, bè, Podere Giodo confesso che non lo avevo proprio mai sentito nominare (sto ormai perdendo colpi). E ho lasciato così un po’ il tutto a riposare, tanto c’erano sequele ordinate di bottiglie in piedi, già ormai rassegnate a dover consegnare definitivamente il loro tappo per i propiziatori riti di assaggio e deglutizione natalizia della mia intera schiatta (e poi amici, amici di amici, amici di amici di figli …).
Quando insomma apro la cassetta, è già passato un po’ di tempo. Guardo l’etichetta (moderna, carina), che non mi svela però niente di più. Sulla retroetichetta poi appare il nome di Carlo Ferrini. E credo, certo, sappiate tutti chi sia lui ed i suoi vini dal Trentino alla Sicilia.
Ma io conosco Carlo dalla fine degli anni ’80, nei lontani tempi del suo lavoro al Consorzio del Chianti Classico. Con decenni poi di assaggi, degustazioni, assieme a discussioni, precisazioni (credo che tutto quel mio battere il tasto sul Gran Meticcio non l’abbia mai molto digerito).
Dell’intera nostra amicizia mi restano però sempre in mente le meravigliose cene elitarie (ristrettissimo il numero dei presenti), che sono poi diventate una consuetudine per almeno una decina d’anni, con meravigliose selezioni di Champagne, con cui si iniziavano i rituali, e poi i grandi Chateaux con cui si andava avanti ad libitum e di cui lui era sempre sapientemente fornito (ecco, penso l’unico caso in cui non ero io a portare il vino).
Capitava molto spesso al Vinitaly, in qualche ristorante fuori Verona. Oppure in Toscana, quando ci si incrociava tra giri o manifestazioni.
Cose di qualche anno fa ormai (non posso più esagerare e dunque mi muovo poco), però l’aspettativa, l’impatto, l’allegria, le scene e le risa di quelle cene sono in un mito per me indimenticabile di beatitudine serena, dopo giornate stordenti di assaggi continui, incontri, saluti a sconosciuti (persone che ti fermavano nei viali della Fiera, chiedendo “Come va?” con grandi sorrisi, “Cosa ha assaggiato di buono?”. E io a domandarmi, confuso, chi fosse mai questa persona. Una faccia vista? Chi lo sa? Un produttore? Un agente? Un enotecario? “Sì, ci siamo incontrati ad una verticale del Sassicaia. Non ricorda? Sarà stato 8-9 anni fa, all’Hilton”).
Non posso impedire così, nel ritrovare negli occhi la luce calda di quei ristoranti, la loro elegante atmosfera di accoglienza, quella pura, riposata rilassatezza nell’osservare lo splendore dei calici davanti e la fila dei sontuosi vini ormai aperti, poi le voci, i piatti in arrivo, che le mie labbra sorridano in un istinto di gioiosa felicità ritrovata. Un picco, una sintesi della memoria in una serena epoca di maggiore gioventù.
Assieme mi resta poi in mente un’altra cosa su quei vini. Come appunto l’impatto degli Champagne (in quel lungo arco di più di 10 anni di cene) fosse sempre perentorio. Mentre quello degli Chateaux, almeno per me, quanto più passavano gli anni, diventasse invece sempre meno emozionante.
Chiaramente andavano nascendo e crescendo proprio in quell’arco di tempo etichette di uvaggi bordolesi italiani che coprivano impetuosamente ad ogni vendemmia successiva quel secolo e mezzo di distanze estetiche. Erano vini che mi intrigavano moltissimo, nonostante fossi poi un sangiovesista nel midollo. Ma quei rossi così morbidi e pieni di carne e frutto mi sembravano delle dolci femmine straniere, sorridenti e cremose, così diverse dalle nostre nelle fattezze e nei loro profumi e poi così incredibilmente belle, eleganti e ignote, così disponibili, che occorreva conoscerle. Bisognava ora un po’ tradire, accostare il naso e le labbra, per poter capire e quindi valutare.
Le etichette da uvaggio bordolese che sono state prodotte in Italia, diciamo in tutti gli anni ’90, le ho assaggiate e le ho rincorse per l’intera penisola. E al tempo stesso domandavo, chiedevo al produttore, all’enologo le particolarità di vigna, di cantina. Ero convinto (e in gran parte lo sono tutt’ora) che da quella lezione di metodo occorresse partire, per utilizzarla al meglio poi sui nostri vitigni.
Aveva un senso coltivare un chilo di uva a pianta su un Cabernet Sauvignon e pretenderne 2-3 da un Sangiovese o 20 da un Montepulciano? Utilizzare barrique nuove per le uve bordolesi e invece botti grandi e stantìe per le nostre e per un tempo infinito? C’era una logica perversa in questo? Poteva essere una competizione ad armi pari?
Adesso fa tutto un po’ sorridere, ogni risposta sembra ovvia. Però 20-30 anni fa ci si doveva battere e spiegarsi per queste ragioni, in un panorama culturale che era assai più depresso, occhiuto e conservatore.
In questo Carlo Ferrini mi è stato molto vicino ed è stato tra gli enologi che più hanno saputo intelligentemente innovare, facendo crescere il nostro vino, operando con un grande gusto ed un intimo senso della bellezza, dell’eleganza. Ed ha così creato via via molti rossi splendidi, in un clima che non era sempre tanto favorevole.
Tornando ora a quelle cene, si può dire che io arrivassi ogni anno in qualche modo più temprato e agguerrito. C’erano già state prime selezioni di uve bordolesi in Alto Adige, il San Leonardo in Trentino, alcune etichette in Friuli (tipo Miani e Dorigo) ad incuriosirmi, poi Maculan a Breganze. Ma soprattutto era quello che stava avvenendo in Toscana che mi appariva come l’inizio di una nuova era. In Chianti Classico (sicuramente venti anni fa la zona-pilota del nuovo rosso italiano) come un apripista era già nato il Solaia e da lì via via l’Apparita, Il Pareto, il Cabernet di De Marchi, il Maestro Raro, il Siepi, il Vigna di Alceo, poco più a lato il Galatrona. In Maremma il Saffredi. A Montalcino l’Excelsus, il Pietradonice. Ma era a Bolgheri e su quella lunga costa, da Populonia a Castiglioncello, che stava avvenendo qualcosa di straordinario, il suo dopo-Sassicaia (così in ritardo rispetto a quella lontana prima vendemmia del 1968) andava preparando etichette (già era nato il Lupicaia proprio di Carlo Ferrini) che avrebbero fatto la storia del nostro nuovo vino. E presto allora presenterò un lavoro, neanche a dirlo non brevissimo di certo, sulle ultime annate e novità di Bolgheri.
Tornando così alle nostre cene, quelli che mi sembravano profumi e sapori totalmente inediti e stupefacenti nei primi anni mi diventavano ormai man mano più consueti, come già sentiti e archiviati. A volte poi mi parevano anche superati negli ultimissimi anni dai picchi che ormai si manifestavano nel Belpaese.
Carlo non era molto d’accordo, pur essendo lui tra gli autori di questa rincorsa. Credo ci fosse tra di noi quella differenza fondamentale che c’è sempre tra un critico ed un autore ed attore. E come siano sempre questi ultimi ad avere una visione più particolare e concreta, fatta di infiniti tasselli e dettagli che compongono tutto l’insieme dell’uvaggio bordolese, perché sono loro a crearli e poi a provare a metterli insieme in modo armonioso.
In quegli assaggi, seppure rilassati, sereni, io osservavo e avvertivo appunto l’insieme, il corpo aggregato del vino. Ma Carlo, da enologo, ne aveva come sezionato le parti e osservava ora ogni particolare che lo componeva, ne valutava anche le difficoltà a raggiungere e possedere il patrimonio completo di quei tasselli aromatici, le sfumate minuzie gusto-olfattive che lo formavano. Così rimaneva assorto, contemplava il bicchiere, gli si piegavano i baffi in una smorfia ammirata. E mormorava “O ragazzi, un vino così …”, lasciando aprire le braccia.
A noi appariva il suo come un entusiasmo comprensibile, assai rispettoso, ma a volte anche eccessivo, quasi un’idolatria “a prescindere”. E poi erano serate di divertimento, di svago puro. Ero sempre io ad avvinare i bicchieri e versare per tutti. Non mi fidavo. Con bottiglie e annate del genere ogni azione va compiuta millimetricamente, in ogni dettaglio e con suprema delicatezza.
Così una volta, nel versare lentamente nei calici uno Chateau mitico, ultimo vino di quella cena, atteso, vagheggiato da tutto il giorno, mi salì una punta di odore dubbio nel naso. Avvicinai subito il bicchiere e con un moto di angoscia mi uscì come un rantolo “Tappo!”.
A rivederci ora, seduti a quel tavolo (ricordo Gioia Cresti, Giacomo Neri), credo ci fosse qualcosa anche di surreale e comico nella scena, perché quella parola aveva spento e raggelato ogni conversazione. Ognuno si era sporto d’impulso verso il proprio bicchiere, sperando che quel suono orrendo fosse stato pronunciato per errore o magari per scherzo. E adesso erano tutti lì concentrati, con il naso nel calice a valutare, considerare.
Occorre dire come quello fosse un tappo infido, non palesemente dichiarato e ostentato, ma di quelli confitti dentro subdolamente. Sembrano la superficiale punta di uno spino, eppure nell’anima del vino hanno già causato per anni un morbo infetto ormai totalmente inguaribile e mortale. E più il bicchiere respira, più la piaga si manifesta con quell’insopportabile odore di muffa e decomposizione purulenta, che ha sgretolato profumi e aromi che potevano essere meravigliosi.
Il tappo cattivo è l’angosciosa riprova di come il vino grandissimo sia uno splendido purosangue, di una delicatezza però che non si può proteggere. Anche dopo essere stato elevato e custodito in cantina per anni, nel migliore dei modi e con le cure più attente (dopo essere stato ovviamente selezionato e curato in tutti i passaggi di vigna) è di fatto in balìa dell’imponderabile umanità degli eventi, anche di un fattore microscopico e banale apparentemente, come un fungo. Basta un sughero contaminato ad annientarlo, a farlo fuori completamente, senza alcuna possibilità di guarigione, come appunto può accadere all’uomo con un male incurabile.
Gli occhi dei presenti erano ormai tutti terrei nel sollevarsi dal bicchiere. Era uno scuotere la testa costernati. La serata era mezza rovinata, la bottiglia non rimpiazzabile lì per lì con qualcosa di altrettanto adeguato.
Solo, nel raccapriccio generale, si sente la voce di Carlo, irriducibile, perennemente indomito, pronunciare il tentativo di no pasaran, come a difesa di una sua creatura “Bè, ma non è detto, … magari è un po’ di ridotto, … si può riprendere, uscire fuori … Aspettiamo”.
Allora, Podere Giodo dunque. Il marrano non mi aveva detto nulla. E’ vero che negli ultimi anni c’eravamo un po’ persi di vista. Ma insomma … E appunto poi l’uvaggio bordolese, come dicevo prima, è stata una scuola per tutta una generazione del nostro vino, una superiore lezione di metodo, un punto di riferimento culturale per certe mete d’arrivo, la morbidezza nei grandi rossi, la ricchezza e l’eleganza del frutto, la preziosità e la fluidità armonica dell’insieme, la giovinezza.
Ma Carlo è fiorentino, soprattutto chiantigiano per tutta la lunga, prima parte della sua vita lavorativa, in cui ha percorso ogni zolla di vigna tra San Casciano e San Gusmé, conoscendo, vedendo crescere ed esprimersi tutti i biotipi possibili di Sangiovese. Ed è su questo vitigno, non c’è dubbio, che si parrà la sua nobilitade. A Montalcino poi lui approda solo più tardi, quando iniziano le sue consulenze.
Per quanto riguarda me poi, mi sono già autoproclamato sangiovesista e montalcinese nel midollo. Penso che solo qui questo vitigno possa dare luogo a grandi vini completi, assoluti e, in alcuni casi, davvero emozionanti. Il fatto così che Carlo Ferrini abbia scelto Montalcino per il suo miglior Sangiovese possibile mi fa piacere e mi commuove. Al tempo stesso nel guardare le sue bottiglie ho provato una curiosità infinita, che proverò a spiegare.
Il suo podere innanzi tutto è lungo la strada sterrata che da Castelnuovo dell’Abate va verso Sant’Angelo (certo scelta non a caso), zona mirabile e perfectissima avrebbero detto gli antichi, a 300 metri di altitudine. La vigna è di 2 ettari e mezzo, 6.600 ceppi ad ettaro (uno e mezzo dei quali iscritti a Brunello), in cui tra il 2001 ed il 2003 sono stati posti a dimora tutti i biotipi di Sangiovese che più lo hanno convinto in questi decenni di lavoro e di selezioni, in pratica un semenzario di tutto quanto conosce, sa e più ammira del vitigno. La 2009 infine è la prima vendemmia a convincerlo completamente e a fargli imbottigliare così il suo primo Brunello.
Personalmente sono sempre stato molto intrigato dal vino di un enologo, quando diventa anche proprietario e produttore, perché in quella libertà assoluta lui può esprimere pienamente tutte le sue idee, le qualità e il talento. Ma tanto più lo sono nei confronti di una persona come Carlo che conosco da più di 25 anni e con cui ho scambiato un inenarrabile numero di conversazioni sul vino, sul concetto di vino, dentro cui non abbiamo fatto altro che domandarci poi cosa sia la bontà estrema, la bellezza e una vita che possa durare il più a lungo possibile oppure che bruci tutto il suo splendore in un arco di pochi anni.
Credo che in queste conversazioni ci siamo interrogati un po’ su noi stessi, su quello che siamo e che vorremmo. E aggiungo un’altra cosa, per essere sincero fino in fondo. L’arrivo di un’etichetta del genere, un enologo che ha acquistato un podere ed ha iniziato a produrre il proprio vino, mi crea anche una piccola crisi interiore. Perché mi sono chiesto infinite volte in questi decenni se non era magari il caso di investire in un terreno, impiantare una vigna ed iniziare così a fare un mio vino, concretizzando quello che penso e sento, camminando la terra (come mi ha scritto un nuovo produttore amico) e immaginando che, mentre io la percorro e la guardo, lei, nei suoi sotterranei, mi sta elaborando i frutti che ho piantato, che devo poi saper cogliere, utilizzare al meglio, far crescere, come nella parabola dei talenti. E dunque cosa avrei fatto allora? Che vitigni avrei scelto? Che vita avrei condotto? Quali sapori e profumi sarei riuscito a creare?
Sono però un animale di città, ineluttabilmente. Troppo inquieto per rimanere fermo in un luogo, dentro un vino. Forse nel fondo preferisco assaggiare ogni anno centinaia o migliaia di opere altrui. Probabilmente è questo il mio destino, anche se continuo sempre a interrogarmi su cosa potrò fare ed essere un giorno, da grande.
Allora questo Brunello 2009 che avevo davanti mi sembrava sempre più la sfida estetica che Carlo Ferrini aveva fatto a se stesso, alle sue capacità e poi soprattutto al Sangiovese, su cui aveva gioito e patito per decenni. Parliamo di poche migliaia di bottiglie, una piccola vigna, a sgomberare il campo da qualsiasi operazione di tipo commerciale. Carlo poi, di tutto il mondo del vino che conosco, è la persona meno interessata a soldi o guadagni.
La curiosità così, mentre apro la bottiglia, è alle stelle. Ed è una delle cose bellissime del mio lavoro. Contemplare un’etichetta, un nuovo vino prima di aprirlo. E chiedersi cosa potrà esserci, che profumi nasconderà?
Osservo allora le indicazioni ai margini, la retroetichetta, se ci sia qualche informazione utile a capire meglio. Leggo così la ragguardevole gradazione alcolica nel numero 15, bello inciso. “Carlo non vuole scherzare. Fa sul serio” penso. E lì mi domando ancora che interpretazione darà del Brunello. Certo lui ha avuto e ha numerose consulenze a Montalcino. Ma quella è la sua vigna, con piante e biotipi scelti da lui uno ad uno. E già questo fa capire come il fattore umano sia fondamentale sin dalla partenza. Poi il vino inevitabilmente lo si plasma nelle fermentazioni, nei giorni o nelle settimane di contatto sulle bucce, nei legni che si scelgono, nel tempo, nelle decisioni della sua pura scansione per far crescere e respirare il vino fino all’ottimale punto di fusione. E poi, solo allora, bottiglia.
Nessuno mi convincerà che il vino nasce da sé, che non va toccato, che meno si interviene e meglio è. Penso che siano solo baggianate, con dentro tante banali ovvietà.
Il vino è una delle opere intellettuali e sentimentali dell’uomo, è l’interpretazione della terra, del vitigno e di una stagione lunga un anno. E quanto più è sapiente, quanto più è intelligente la mano del suo autore, tanto più il vino apparirà naturale, diretto, senza sovrastrutture, senza finzioni, come appunto nell’arte.
So poi perfettamente che la grande aspettativa può nuocere, può creare delusioni. E mi è anche capitato, di certo. Ma in questo caso l’assaggio del Brunello 2009 Podere Giodo è stato esaltante ed è riuscito in qualche modo a spiazzarmi, come se il vino non me l’aspettassi in questo modo. Ma il grande vino è così, è imprevedibile. Ed è bello forse proprio perché ti stupisce e va oltre quello che tu puoi immaginare.
Granato dunque profondo al colore e naso immediatamente di cremosità assoluta, stupefacente, un respiro largo e dolcissimo di classe suprema, che espande la sua energia, occupa nuovo spazio e suono in un diapason di frutti rossi e more mature su strati carichi di confettura, vaniglia, tartufo bianco, liquirizia dolce, tabacco, spezie. Un Brunello di impareggiabile morbidezza (in effetti Carlo ama la morbidezza nei vini, perché non me l’ero aspettato così?), che tende ad un’opulenza femminea e solare, ma niente affatto calcata ed ostentata, perché gli aromi sono di un’eleganza finissima e controllata.
La gradazione alcolica è lì a dirci che Ferrini, in un’annata del genere, ha aspettato a vendemmiare. Ma in questo Brunello non c’è niente di sovrammaturo, tutta la sua intelaiatura è in una linea tesa bilanciatissima, con la resistenza acida a mantenere freschezza ancora viva, energica e poi un patrimonio di frutti di soave e dolcissima bellezza che sale, cresce e si dilata man mano dal bicchiere.
La bocca poi è di splendido velluto, rotonda e di sontuosa, pura crema, a restituire in un tessuto di levigatezza tutto il ventaglio dei suoi aromi, la loro sostanza tattile, carnosa, passionale, che si concede maestosa e aperta, sensuale e sorridente. L’impressione che ho provato è stata di grande prova d’artista, vino tecnicamente senza un graffio o una ruga, eppure per niente algido (ma di Ferrini credo di non aver mai bevuto un vino algido), con il nitore estremo e assieme la bellezza calda, ubertosa, estiva di un dipinto rinascimentale.
Se può avere un limite questo Brunello è nella gioventù delle sue piante (malattia solo temporanea questa, da cui, nel migliore dei casi, il caro tempo ci fa guarire abbastanza in fretta). Voglio dire che questo Brunello me lo berrei con gioia (perché è appunto un gran rosso felice, sereno) da qui ai prossimi 4-5 anni.
Le vendemmie successive (ed in questo senso già molto mi incuriosisce la prossima grande 2010) credo daranno un risultato che virerà più nella profondità, ci sarà forse anche un pizzico di rabbia in più. Ma di questo ovviamente riferiremo …
Gli altri due vini assaggiati erano la medesima etichetta di Rosso IGT, ma rispettivamente 2010 e 2011. Entrambi vini da Sangiovese in purezza dalla sezione di vigna che non ha ancora ottenuto l’iscrizione a Brunello o a Rosso di Montalcino e può essere dunque imbottigliato solo come appunto IGT. In sostanza ha le cure e le attenzioni di un Rosso di Montalcino ed in questo senso ne sarebbe una delle espressioni più alte che ho assaggiato.
In particolare il 2010 è un gran Sangiovese impetuoso e moderno, deciso, carico, di grande ricchezza (e nell’assaggio appunto non ho fatto altro che pensare a cosa possa essere, se tanto mi dà tanto, il Brunello 2010), più fresco e con un appoggio più leggero nel legno, ma nello stesso tempo potentemente colmo di frutti rossi che sfumano nella dolcezza delle vaniglie, su un letto finemente speziato. La bocca è poi perentoria e piena, grassa di frutto, generosa di alcol e di voluminosità, di sfumature ampie e sinuose che lo rendono gustosissimo e appagante.
Il Rosso 2011 è appena meno carico, ma estremamente raffinato, e più femmineo del 2010, con una sua esemplare eleganza, un leggero tocco di tartufo sul frutto a ricordarmi il Brunello 2009 (e non so allora se su questa vigna ci sia stata qualche assonanza stagionale tra le due vendemmie), molto ricco di profumi, ma credo anche che meriti un altro paio di anni di vetro per esprimersi pienamente. Con una bocca assai bella e setosa, gustosissima e minerale. Un gran Sangiovese, colto, educato, di ampiezza borgognotta, su cui saper anche aspettare.
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